Quando alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia volavano gli schiaffi era il 1954. Il valore del festival era ormai indiscutibile, il cinema d’autore giapponese lanciatissimo (quell’annoI Sette Samurai di Akira Kurosawa e L’intendente Sansho di Kenji Mizoguchi vinsero il Leone d’argento), Marlon Brando consolidava la sua fama con Fronte del Porto e tra gli italiani in concorso c’erano Luchino Visconti e Federico Fellini.
La sera della premiazione della XV edizione, il 7 settembre, l’aria all’interno del Palazzo del Cinema era elettrica, carica di tensione. Curiosi ed addetti ai lavori avevano da tempo preannunciato uno scontro vigoroso tra i due maggiori candidati al Leone d’oro:Senso, il grandioso film in costume sul tardo Risorgimento italiano firmato da Visconti, e La Strada, film della consacrazione definitiva di Fellini, con il quale il regista riminese avrebbe vinto l’Oscar come miglior film straniero un paio d’anni dopo.
Al momento della proclamazione dei premi da parte della giuria presieduta da Ignazio Silone, la sorpresa fece saltare per aria i presenti: ad essere incoronato re del festival fu Romeo e Giulietta, il controverso film di Renato Castellani caratterizzato da una gestazione lunga sei anni e da una ricerca della perfezione formale talmente spinta e sbilanciata da indurre i critici dell’epoca a parlare di risultato freddo, calligrafico, votato all’estetismo dei costumi e delle location ai danni dell’elemento umano e del comparto attoriale. Primo film italiano, tra l’altro, a vincere l’ambito premio.
Fischi e strepiti riempirono la sala e si fecero insopportabili, poi, quando Senso risultò definitivamente escluso, persino dai vincitori della statuetta del Leone d’argento. Non appena si resero conto che Fellini aveva bissato il secondo premio dopo il successo de I Vitelloni l’anno precedente, i sostenitori di Visconti cominciarono a fischiare all’impazzata e, come racconta Tullio Kezich, sfidando il clan felliniano cominciarono a scandire a gran voce il nome del maestro: «Vi-scon-ti! Vi-scon-ti!». Per quanto assurdo fosse, le proteste non furono indirizzate contro Castellani ma riguardavano Fellini e provocarono la reazione di sostenitori e collaboratori. Moraldo Rossi, suo eccentrico aiuto regista da Lo sceicco bianco a La dolce vita, non riuscì a controllare l’ira e finì per avventarsi contro Franco Zeffirelli, assistente alla regia e notoriamente amante di Visconti, con il quale convisse per diversi anni sulla via Salaria a Roma.
Fu un gesto insieme affettuoso e violento, spontaneo e immaturo, degno di quel Moraldo, il “vitellone” splendidamente interpretato da Franco Interlenghi, che Fellini aveva modellato proprio sulle sembianze del suo spregiudicato amico e assistente. Lo stesso che non esita a rievocare lo spassosissimo aneddoto in un articolo apparso sull’“Unità” più di dieci anni fa, intitolato iperbolicamente Il fischio e il leone.
Quando al Festival di Venezia volavano gli schiaffi, insomma, le cose erano un po’ diverse da come sono adesso. La politica ingeriva senza troppe sofisticazioni nella scelta dei vincitori, così come il clero. Ugo Casiraghi scriveva che “a Roma qualcuno prega incessantemente perché magari avvenga il duplice miracolo”, alludendo da un lato all’auspicabile ritardo di Senso, boicottato da gran parte dei poteri forti della politica anti-comunista e frenato dall’ostruzionismo del governo democristiano di Mario Scelba e dall’imperante eredità del centrismo di Alcide De Gasperi, dall’altro all’arrivo in extremis di Romeo e Giulietta, pellicola girata in Technicolor e bloccata, fino a poco prima del festival, negli stabilimenti di sviluppo e stampa di Londra.
La strada, invece, sembrava godere dei favori degli ambienti ecclesiastici: fu menzionato dall’Ufficio cattolico e considerato un film “suscettibile di far scoprire allo spettatore attento il senso cristiano del destino umano”.
Soltanto una buona parte della sinistra sosteneva l’opera di Visconti. A livello politico i progressisti accusavano la direzione della Mostra di aver accelerato l’arrivo dall’Inghilterra del film di Castellani per poterlo contrapporre a Senso, la cui visione storica del Risorgimento era sgradita a determinati schieramenti più conservatori. La critica di stampo marxista di Guido Aristarco, “il più viscontiano dei critici” secondo il conte milanese, ravvisò nel film la capacità di cogliere le contraddizioni e la complessità degli eventi storici, superando le facili denunce affidate alla superficialità cronachistica del Neorealismo. Un passaggio epocale “dal neorealismo al realismo, dalla cronaca alla Storia” basato su un confronto coraggioso con un presente che deve fare i conti con la grande disillusione seguita ai fermenti della Liberazione.
Un percorso, quello del Visconti che strizza l’occhio al realismo lukacsiano, sicuramente parallelo a quello intrapreso dal suo grande rivale Fellini, maggiormente interessato a sondare il reame del fantastico, dell’immaginazione, della magia, della poesia.
“Chiudi bene il finestrino della macchina, che se passa Luchino mi ci sputa dentro!” si raccomandò una volta con Tullio Kezich dopo aver parcheggiato in piazza del Popolo. Tale era il tenore delle preoccupazioni, adeguatamente esagerate col tipico piglio umoristico, di Fellini nei confronti di Visconti all’indomani della sconfitta di Senso. Anche se forse così esagerate non erano dato che i due non si salutavano affatto e che il muro del gelo venne infranto soltanto molti anni dopo con uno storico abbraccio nell’atrio dell’Hotel Moskva durante il Festival di Mosca dove trionfò Otto e mezzo.
E quando Visconti rimase immobilizzato su una sedia a rotelle in seguito ad un ictus, Fellini si recò a fargli visita, ammirando apertamente la sua decisione di continuare a lavorare fino all’ultimo respiro.
Ma questa è un’altra storia. E quando a Venezia volavano gli schiaffi, era appena cominciata.