Dev’essere stata una due giorni allegramente intensa, quella pur mo’ trascorsa per Vincenzo Mastropirro, poeta autentico e musicista sublime d’origini ruvesi, ma ormai da anni bitontino d’adozione.
Sabato e domenica, infatti, nella ridente Lerici, perla ligure magicamente sospesa sul mare, il Nostro ha ricevuto uno dei premi più importanti della letteratura italiana, con motivazione griffata dallo scrittore Roberto Pazzi: il “Lerici Pea (da Enrico, altra penna sensibile)“.
Ha trionfato nella sezione dedicata a Paolo Bertolani, palombaro dell’anima vernacolare italica.
Il luminoso riconoscimento, nei sessant’anni di vita della manifestazione, è toccato ad artisti del calibro di Giorgio Caproni, Eugenio Montale, Rafael Alberti, Carlo Bo, Libero Bigiaretti, Carlo Betocchi, Salvatore Quasimodo, Maria Luisa Spaziani, Silvio Ramat, Dario Bellezza, Valentino Zeichen, Alessandro Parronchi, Paolo Ruffilli e Giovanni Giudici, giusto per ricordare alcuni dei nomi altisonanti dei vincitori.
Ci piace immaginare Vincenzo, che da qualche ora s’è aggiunto a cotanto lirico senno, con la sua camicia dipinta di notte, gli occhialini lievi lievi ed il flauto mosso con dolcezza nel breve cielo che lo circondava, come fosse una piccola ala d’angelo.
Mastropirro, che vestì di note le parole dolenti e terribilmente seducenti di Alda Merini, la “pazza della porta accanto”, scrive versi che dicono i palpiti più ancestrali del cuore.
Sono poesie in dialetto ruvese – per lui, la lingua madre per davvero – che cantano gli atti umani misteriosissimi che pure fanno meno fugace il nostro transito quaggiù.
“Sònne spìsse lu stesse sùnne,/abbuò sotte a re palpebre/ad acchiç la véretò./Inde u spìéccje/vaite n’ànema crudèle/stoche sìule e alla-niute/c’abbuàisce dèfenetivamìénde. E’ l’uteme vule/pe’ d’accumenzò arrète/inde a nu alte pizze de munne“.
E il volo è un sogno che ritorna, solo dopo che azzurro nuvole stelle luna oro tutto è entrato dentro il cuore per farsi poesia.
Vivono in essi la natura colta nella sua superstite purezza e gli affetti più scavanti, i colori scintillanti e malinconici e le musiche rapinose e catturanti di quel grande teatro che è il Sud.
Nella silloge “Tretìppe e martìdde” (pubblicato prima da PerroneLab e poi aggiornato dalla Secop di Peppino Piacente, altro geniale nostro concittadino emigrato però a Corato) ogni lettore riconosce la sua storia, cantata con la voce lontanante della memoria: “E’ la notte de Natòle/u ‘Bommèine stè cu maiche/nu nuonne nan stè cchjue/ma idde scioche ci Idde“.
E persino sul volto dell’uomo riflesso nello specchio sdrucciola giù una piccola, calda lacrima…