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Home » A spasso con la Storia/Il primo tentativo (fallito) di uccidere Benito Mussolini. La controversa figura di Tito Zaniboni

A spasso con la Storia/Il primo tentativo (fallito) di uccidere Benito Mussolini. La controversa figura di Tito Zaniboni

Doveva accadere il 4 novembre 1925, ma la polizia fascista fa saltare tutto. Dal carcere scriverà lettere adulatorie, in seguito, per il Duce

La Redazione by La Redazione
19 Febbraio 2021
in Cultura e Spettacolo
A spasso con la Storia/Il primo tentativo (fallito) di uccidere Benito Mussolini. La controversa figura di Tito Zaniboni
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Questa è una storia di un attentato mancato. Ma non di un attentato “ordinario”, ammesso che esistano davvero. È il tentativo – il primo, tra l’altro -, di uccidere Benito Mussolini, che varie volte ha rischiato la vita negli oltre 20 anni di dittatura (e, nei mesi scorsi, ne abbiamo già parlato in questa rubrica https://bit.ly/3blphiP), cavandosela sempre.

E, ovviamente, la stessa identica sorte è toccata anche quella volta.

È il 4 novembre 1925. Ricorre l’anniversario della vittoria italiana, sette anni prima, a Vittorio Veneto. Il presidente del Consiglio ha in programma un discorso a Palazzo Chigi per celebrare l’evento. Ed è proprio durante il suo intervento, che Tito Zaniboni deve agire.

Chi è Tito Zaniboni? Un esponente socialista nato nel 1883 in un Comune non distante da Mantova, e diventato fortemente antifascista dopo la morte di Giacomo Matteotti, avvenuta l’anno precedente. Ed è, infatti, dal 16 agosto 1924, il dì in cui il corpo senza vita di Matteotti è ritrovato, che si prefigura un solo obiettivo: vendicare il “compagno”.

Il 4 novembre, allora, Zaniboni avrebbe dovuto far fuoco con un fucile di precisione austriaco da una finestra dell’albergo “Dragoni”, fronteggiante il balcone di Palazzo Chigi da cui si sarebbe dovuto affacciare il Duce per celebrare l’Anniversario della vittoria. Già, avrebbe dovuto. Non sa, infatti, che nel suo gruppo fa parte un informatore di polizia, e che, quindi, tutte le sue mosse sono state fino a quel momento sorvegliate dal questore Giuseppe Dosi e controllate dall’Ovra, la polizia del regime.

L’operazione di polizia scatta quando il socialista, arrivato in albergo, si appresta a salire nella propria camera. Qui, nell’armadio, è trovato il fucile, e nei pressi della piazza San Claudio, l’auto acquistata pochi giorni prima e che sarebbe servita per la fuga. Tutto questo tre ore prima di entrare in azione.

È arrestato e, al processo, dopo aver smentito tutte le accuse, fa questa dichiarazione: “Dichiaro senz’altro che il giorno 4 novembre 1925 era mia intenzione sopprimere il Capo del Governo, Benito Mussolini. Se la P.S. invece di giungere all’Albergo Dragoni alle 8.30, fosse giunta alle 12.30, io avrei senza alcun dubbio compiuto il mio gesto. Il delitto aveva lo scopo di rimettere il potere nelle mani di Sua Maestà il Re”.

La condanna, ovviamente, è inevitabile. Trent’anni di reclusione.

Qualche anno dopo, però, dal carcere di Alessandria, scrive lettere di profonda adulazione e ringraziamento a Mussolini, perché questi aiuta economicamente la famiglia e permette alla figlia di laurearsi.

Dal marzo 1942 soggiorna a Ponza come confinato. Arrivati gli inglesi, nel 1943, è nominato sindaco provvisorio dell’isola, per via della conoscenza della lingua britannica appresa durante soggiorni giovanili negli Stati Uniti.

Pietro Badoglio, poi, lo nomina, seppur con poteri molto limitati, alto Commissario per l’epurazione nazionale del fascismo, ottenendo però scarsissimo successo.

Muore a Roma nel 1960. Per essere stato impegnato nel primo conflitto mondiale, è insignito di due medaglie d’argento e una di bronzo al valore militare.

 

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