Ci sono
quei momenti in cui rimane addosso la sensazione del dolore.
In cui
pensi che di tutta la storia letta sui libri di scuola non sia rimasto nulla.
Così, quel
che resta è nutrirsi della memoria trasmessa; quella che trasuda dai sentimenti
umani vissuti dai testimoni.
Aveva
cominciato Euripide con “Le Troiane” a narrare la storia con
gli occhi delle donne e il prof. Alessandro
Portelli con “L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria”
(1999) racconta la storia di sei donne che nel 1944 vissero l’eccidio delle Fosse Ardeatine, feroce rappresaglia
dopo il tragico attentato di via Rasella.
Francesca Comencini, assieme a sei donne Tatiana Lepore, Lunetta Savino, Carlotta
Natoli, Simonetta Solder, Chiara Tomarelli e Mia Benedetta – che ha curato i testi insieme alla regista –
ripercorre quella tragica giornata in una Roma devastata dalla guerra e dall’occupazione
nazista con “Tante facce nella memoria” andato in scena lo scorso sabato al
“Traetta”.
«Le voci raccolte da Portelli
“sono, doppiamente, l’altra faccia della storia: perché storia orale, e perché
storia orale al femminile. Ho dunque costruito, come nel montaggio di un film,
stabilendo nessi logici ma anche emotivi, un racconto a sei voci che si
susseguono e ritracciano, ognuna a modo suo, le tragiche ore che hanno preceduto
l’eccidio delle Fosse Ardeatine, i giorni angosciosi che lo seguirono, giorni
di ricerca dei quei trecentotrentacinque uomini che sembravano scomparsi nel
nulla, i silenziosi anni dopo la notizia dell’eccidio. Anni in cui, con un
macigno sul cuore, queste donne si sono risollevate, hanno ricominciato a
vivere, a raccogliere i cocci», spiega Francesca
Comencini in un’intervista.
Si tratta
di Marisa Musu, partigiana insignita
della medaglia d’argento al valor militare, Carla Capponi partigiana medaglia d’oro e poi Ada Pignotti che a 23 anni alle Fosse Ardeatine perse il marito, Gabriella Polli, Lucia Ottobrini, Vera Simoni:
nelle voci della neosposina, in quelle delle figlie rimaste orfane di padri
orgogliosamente partigiani e nei racconti incalzanti e appassionati delle
partigiane della resistenza, si avverte la paura, l’orgoglio, la voglia di
riscatto e la forza di un perduto senso di solidarietà che commuove e mette
ancora i brividi.
L’importanza
della memoria trasmessa è quella che viene fuori dai sentimenti umani vissuti
dagli ultimi testimoni rimasti, perché nelle versioni ufficiali dei tribunali
queste donne non esistono. Alle vedove delle vittime dell’eccidio, alle
partigiane che rischiavano la vita per la causa, non fu concesso nemmeno di
costituirsi parte civile. C’è una Resistenza taciuta, fatta dalle tante donne
che parteciparono come staffetta e combattenti per la liberazione, donne come
Irma Battaglia, Carla Capponi, Marisa Musu e da quelle torturate, uccise,
impiccate e lasciate appese nei luoghi pubblici. Dalle parole riesumate nello
spettacolo della Comencini, arriva forte il senso e il significato del concetto
di libertà di espressione, fascismo, paura, democrazia e fame, che arrivano
allo spettatore denudate di ogni riferimento teorico e pregne del loro valore e
significato reale.
La loro
memoria è portata in scena come fosse un’unica voce, costellata di momenti di
vita, piccoli gesti, perseveranza e determinazione che hanno portato a
ritrovare i cadaveri dei propri cari; ma anche delle donne che facevano parte
dei Gap (gruppi di azione politica) che, con la precisione di un corpo
militare, organizzarono l’azione contro le truppe naziste che ancora occupavano
la Capitale.
“Ma dove avevi la testa, papà? Perché
non hai pensato a noi, alle tue tre figlie, a casa prima di aderire a certi
movimenti? Come ti sarai sentito davanti ai quei lupi che vi trattavano come
pecore?”.
“Quando anche l’ultima delle
sorelle si sposò, trovammo mamma seduta ad un tavolo a piangere e a vivere il
grave lutto che, anni prima, l’aveva colpita”.
“Siamo stati sposati solo tre mesi
e ripenso a quando mi chiedevi <Ma se muoio, ti risposi>: avevo 23 anni,
tutta una vita davanti e rispondevo di no. Ti ho cercato in lungo e in largo”.
“Speravo, speravo che quel ponte
di denti tra le mani del dentista, non combaciasse con quello di papà. Quando
il medico disse che era proprio lui, non sapeva che ci stava condannando, ci
stava togliendo ogni piccola speranza di pensarlo ancora vivo”.
“Avevo sparato ed ero così
impaurita che risalì la strada con la rivoltella ancora in mano, incredula di
ciò che avevo appena compiuto”.
È questo il
dolore. Il dolore d’immaginare la sofferenza; di non poter più amare; di dover
sopperire all’assenza con il lavoro, senza aver il tempo nemmeno di piangere;
di veder sparire l’ultimo briciolo di speranza; di aver paura.
Paura di
non poter vivere più, vivere solo nel ricordo, nella rabbia, di ciò che c’era e
t’è stato portato via.