Il 12 e il 13 gennaio Mimmo Mancini sarà sul palco del Teatro Traetta per lo spettacolo “Non chiamateli briganti”. Insieme a lui l’attore barese Paolo De Vita, noto, come Mimmo, per la partecipazione a numerosi film e sceneggiati televisivi.
Il tema di fondo sarà, come si può ampiamente intuire dal titolo, il brigantaggio negli anni dell’unificazione italiana. Soprattutto quello pugliese, come ci spiega Mancini ai nostri taccuini: «Sono convinto che sia necessario guardare al nostro passato per comprendere il presente e abbracciare il futuro. E credo che del Risorgimento ci sia ancora tanto da dire. È un argomento attualissimo, perchè se da una parte c’è chi abbraccia ancora la retorica risorgimentalista, dall’altra c’è chi parla in chiave secessionista, chi inneggia ai Borbone. È ridicolo, assurdo. Non si può negare che anche prima dell’unificazione ci fossero difficoltà. Certo, si tentò di fare qualcosa. Ad esempio, abbiamo un comparto olivicolo perché ci furono finanziamenti per ogni albero impiantato. A Bitonto abbiamo un teatro perché quel lotto di terra fu donato e Ferdinando II diede subito il permesso di costruire. Ma spesso gli interventi erano circostanziati a Napoli e dintorni. In Calabria i contadini erano sfruttati».
«Ma – continua – è altrettanto assurdo che si parli di quel periodo, anche nei libri di scuola, come se ci fossero ancora i Savoia, ignorando che lo sbarco dei Mille fu sovvenzionato dagli inglesi, che avevano tutto l’interesse economico e militare nel costruire basi navali nel Mediterraneo per avvantaggiare i loro commerci. In molti non conoscono la vicenda di Ippolito Nievo, misteriosamente scomparso con la sua nave durante il viaggio da Napoli a Palermo. Non è possibile che ci siano ancora strade dedicate ad Enrico Cialdini, responsabile di stragi. Come è possibile, inoltre, che, nel Museo del Risorgimento, a Roma, non ci sia nulla sul brigantaggio al Sud, sui Borbone, e sul Sud in generale?».
Uno degli obiettivi che Mancini si pone, quindi, con questo spettacolo è quello di fare chiarezza su un argomento ancora difficile, nonostante i quasi 160 anni trascorsi: «La gente non distingue il brigantaggio politico post-unitario dal brigantaggio banditesco, che esisteva già dalla Roma imperiale e che pure aveva le sue ragioni storiche dato che gli strati più poveri della popolazione morivano di fame. E comunque spesso dietro questo fenomeno c’erano sempre potenti signori che si arricchivano grazie alle ruberie. Negli anni non è cambiato molto. Ai vecchi signori medievali si sono sostituiti i grandi latifondisti. Ma la storia è sempre la stessa Come può non interessare un argomento che vede protagonista il popolo, il proletariato? Si chiedeva un’equa distribuzione delle terre».
Ecco il perché, da parte del regista e attore, della scelta di un argomento sempre più discusso, ma anche delicato e controverso: «Non per fare stupide contrapposizioni quali Savoia contro Borbone, Nord contro Sud».
«Si parla sempre del brigantaggio lucano – aggiunge – ma anche in Puglia c’erano tanti briganti. Alcuni erano dei veri criminali, ma altri erano mossi da diverse ragioni, come il Sergente Romano».
La storia, ambientata tra il 1859 e il 1863, narra le vicende di due fratelli pugliesi, un contadino e pastore, uno pro-Borbone e l’altro liberale filo-garibaldino, diventati briganti per necessità e per un’ingiustizia subita, l’accusa di un furto mai commesso. Si ritrovano a vivere alla macchia. Sarà questo un repentino e doloroso cambiamento della loro vita. Per sopravvivere rubano e conoscono altri briganti. Anzi, involontariamente lo diventano.
«Spero di portare lo spettacolo in giro per l’Italia» conclude il regista, che si augura di vedere il teatro pieno non solo degli adulti, ma anche di ragazzi.