In occasione della rappresentazione di “U Parrinu”, andato in scena a Bitonto lo
scorso sabato 11 gennaio al Teatro
Traetta, il “da Bitonto” ha incontrato l’artista Christian Di Domenico.
Lei è stato allievo del maestro Jurij Alschitz, noto per aver essere il
fondatore della metodologia di arte drammatica, cosa le è restato di questa
esperienza?
«Ho fatto un triennio con lui e mi ha
chiesto di restare. Sono uno degli ultimi italiani di cui lui si è dotato per
la formazione pedagogica. Mi sono perfezionato con lui nell’attività dei
laboratori all’estero e in Italia. È stata un’esperienza bellissima, altamente
formativa ma destabilizzante. Il maestro in quanto tale esercita un’influenza e
un carisma sul tuo animo e sulla tua coscienza molto forte a volte anche
invadente. Dopo aver frequentato quel tipo di formazione mi era difficile
andare a lavorare con chiunque altro in Italia. Quella modalità di approccio al
teatro, anche se lui non lo diceva, sembrava essere l’unica possibilità per
essere credibili e autentici. Tutto il resto era falso, artefatto, stantio,
“volgare”. Tant’è che nel 2001, tredici anni fa, con il mio compagno di corso
Gianpiero Borgia, di Barletta, abbiamo fondato in Puglia la Compagnia delle
Formiche: era l’unica cosa che ci sembrava possibile, creare un nostro teatro esercitando
quegli strumenti che il maestro ci aveva lasciato. Per molti anni ho vissuto
il trauma di essere l’èlite che si crede èlite: mentre l’incontro con il popolo
era perso, eravamo staccati, eravamo un po’ troppo snob. Con un grandissimo bagno di umiltà questo spettacolo (“U Parrinu”, ndr) segna
una nuova tappa fondamentale come attore ma soprattutto come uomo. È la prima
volta che scrivo un testo. Ho lasciato la compagnia, l’accademia, ho puntato
tutto su questo spettacolo per calarmi nell’esigenza, nell’urgenza di dire
delle cose, di farlo con qualità che la mia formazione e il mio bagaglio mi
lascia.
Quali altri considera suoi maestri nel percorso personale?
«Ho avuto come
maestri anche Marco Baliani e Gabriele Vacis, regista del racconto
del Vajont, Marco Paolini alla Paolo Grassi di Milano che mi ha scelto come attore in diverse produzioni. Stasera(per chi legge sabato 11 gennaio, ndr)nella semplicità di una sedia e di un
unico oggetto scenico io porto un teatro di narrazione ma con una storia che è
la mia storia con Padre Pino Puglisi:
è un investimento al personale, l’impatto emotivo è al personale, questo la
gente lo sente e di questo è grata alla fine. L’umanità dei ragazzi che hanno
avuto conflitti con la chiesa con i preti e che poi ritornano ad un credo, ad
una fede. È lo spettacolo con cui lascio la Puglia sebbene oggi è la 49sima replica che faccio e, di queste, 30
sono state in Puglia. La produzione è di mia madre perché è lei che personalmente
ha conosciuto Padre Puglisi: era una persona tanto cara alla mia famiglia e
l’ho pensata per le scuole, per le chiese dove poi effettivamente si è svolto».
Tra le esperienze anche quella come
attore al fianco del regista Giuseppe Bertolucci, dell’attrice Mariangela
Melato…
«Giuseppe Bertolucci, a proposito di
umanità, era una di quelle persone semplici, umili, che ti metteva a tuo agio
non ci ha mai fatto subire il carisma del rapporto gerarchico con il grande
regista. Abbiamo lavorato soprattutto con “Il
congedo del viaggiatore cerimonioso” di Giorgio Caproni che era una figura molto cara alla sua famiglia. Fu
uno dei primi casi, da attore vero e proprio, di incontro con figure artistiche
che mi hanno lasciato tanto: lascia in eredità come i veri maestri l’importanza
di avere un’urgenza, una necessità, una passione con cui contattare un
materiale per poi portare in scena un film, uno spettacolo.
Se
parliamo di Mariangela Melato (in
scena con l’attrice in “Una vita in
gioco” regia di G. Bertolucci, ndr) parliamo
della Signora del teatro, del cinema, una grandissima attrice con una forza
dirompente. Mentre con Bertolucci l’esperienza era casalinga perché avveniva a
scuola, andare a Cinecittà era il
primo incontro, la prima esperienza con la vita nel set. Era strano il
trucco, il trasporto, vestiti tutti di bianco con un cliché felliniano e
sembravamo i Pooh scendendo dalla macchina sul set. Lei arrivava e sapendo come
doveva essere inquadrata, se aveva un primo piano o un mezzo busto recitava in
pantofole. Arrivava e, seppur non l’avesse voluto, attorno le giravano tutti
quanti attorno come un carillon esattamente come la scena finale di “Otto
e mezzo”».
Cosa si porta dentro di quel mondo, cosa
la salva?
«Quando sono
stato giovane attore andavo spesso a teatro e volevo incontrare gli attori
soprattutto se lo spettacolo mi era piaciuto chiedevo loro consigli. In quel
caso ci sono quelli che ti guardano e ti rispondono, o se non hanno tempo per
lo meno te lo dicono in maniera garbata, e ci sono quelli che non ti guardano,
tirano dritto e sono sgarbati arroganti ed è capitato anche per quelli che non
ti aspetti o per quelli per cui nutri una grande venerazione. Ecco il grande
maestro Alschitz mi diede un monito che porto sempre dentro di me: “Ama l’arte in te stesso e non te stesso
nell’arte” e questo mi salva».
Ha fatto l’attore al teatro, al cinema,
ha insegnato. Qual è la sua giusta dimensione?
«Credo che fare l’attore sia la mia dimensione più giusta essere sulla scena
significa avere delle emozioni che molto spesso reprimiamo, significa
concedersi il lusso o il privilegio di approfondire alcuni temi che la realtà
ti offre e che invece, l’essere frettolosi e superficiali, la quotidianità ti portano
via. Invece i grandi autori Shakespeare,Cervantes, danno la possibilità di
immergerti in te stesso e tirare fuori il. Condividerle fa in modo di sentirti
vivo come non mai. Oggi
per me la vita è la mia famiglia, sono le sorprese la meraviglia delle scoperte
dei miei figli: ogni loro testimonianza di affetto è come il Teatro».
Il teatro prima il teatro adesso? Gli
spettatori cosa cercano?
«Dando
un’occhiata ai cartelloni è indubbio che gli spettatori cerchino il nome. Gli
appassionati sono tanti, sono lo zoccolo duro, e non bisogna disaffezionarli:
devi necessariamente essere un bravo artista. C’è una buona fetta che cerca
l’utile lo spettacolo si deve vendere, se crea reddito, intrattenimento. La
gente cerca storie. Nelle modalità con cui le racconti sono sempre diverse ma
che hanno come fonte comune l’essere umano, l’uomo come categoria un’indagine
approfondita dei conflitti che agiscono nel suo animo …»
Delle fette dell’omerico polytropos… «Certo! Perché il teatro è uno specchio come
diceva Shakespeare, lo spettatore si riconosce, cerca immedesimazione,
coinvolgimento emotivo anche filosofico, di senso. Un teatro che non ti lascia
un’emozione, un dubbio, una provocazione secondo me non è un teatro utile. Non
ci deve essere emotivamente la catarsi ma empatia, vita. Il teatro si deve
interessare di grandi temi, oggi si sta andando verso la contemporaneità: lotta
contro la mafia, legalità, femminicidio, lavoro e crisi, la politica stessa.
Molti giornalisti ora fanno teatro, vedi Travaglio …»
“U Parrinu” un titolo dal doppio
significato, perché?
«In siciliano
significa il parroco, il prete ma anche il padrino di cresima ma anche come
Boss. Ha tutti e due i temi della vita del mio racconto di padre Pino. Per me
il Teatro, che soli Italia ha per
anagramma Attore, è l’attore. È un po’ come l’albero di Natale: ne avevo uno
che era un po’ claudicante quanto più lo rivestivo, lo adornavo, con palline
bellissime, che portavo ai miei bambini da tutto il mondo, quanto più rischiava
di cedere. Era importante l’albero, che poggiasse bene, come per il teatro
l’albero è l’attore. Questo è uno spettacolo dell’attore che si butta con
grande generosità in quello che sta facendo».
Bitonto. Un ritorno in città, come l’ha
trovata?
«Devo
giudicare con uno sguardo oggettivo che ci sono molti lavori in corso ma sono
normali qui come altrove, spero giungano presto al termine nel migliore dei
modi. Per me Bitonto, negli anni, è per disfunzione
professionale diventata il Teatro
Traetta. Non ho mai parlato tanto bene di un teatro come di questo mi piace
proprio nella dimensione di incontro con lo spettatore. Però. Diciamo un però
che può aiutare: secondo me serve un direttore artistico attento che lo tenga in
piedi nel migliore dei modi possibili perché sarebbe un peccato trascurarlo. I
primi anni che sono venuto in Puglia ho recitato subito qui è un pezzo della
mia memoria importante per me e la mia formazione».