Davanti
a testimonianze come quelle di don
Cosimo Stellacci, che ha avuto fino al termine del suo cammino terreno
lo stigma della Croce, dovremmo avere una misura nelle parole, anche
perché sappiamo come don Cosimo vorrebbe essere ricordato: ci chiederebbe di coniugare
nelle nostre vite i tre verbi che lui ha sempre incarnato nella sua: ascoltare
la Parola, spezzare il pane dell’Eucarestia, frequentare la scuola dei
poveri.
Questi
sono stati i tratti fondamentali della sua esistenza. A proposito di testimoni
della Croce, ho trovato questa assonanza in un passo della prima omelia di Papa Francesco nella Cappella Sistina
quella di altri tre verbi: camminare, edificare, confessare.
“Quando camminiamo senza la Croce – dice
Papa Francesco – quando edifichiamo senza
la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del
Signore: siamo mondani, siamo vescovi, preti, cardinali, papi, ma non discepoli
del Signore”.
Don
Cosimo non è stato vescovo, cardinale, papa. Anzi, ha abitato le periferie
delle città e della Chiesa, che per lui dovevano coincidere e ne ha fatto il
luogo privilegiato per la sua testimonianza profetica di discepolo di Cristo
crocifisso ed è stata questa la sua unica gloria.
Don
Cosimo manca oggi alla sua famiglia, ai suoi amici, manca alla nostra città e
alla nostra chiesa. In un tempo in cui rischiamo l’indifferenza davanti
ad una violenza e ad un male di vivere così arroganti da rischiare di diventare
banali e di indurci alla rassegnazione e all’impotenza.
Don Cosimo, come Isaia,
non avrebbe taciuto per il bene del suo popolo, anzi ci avrebbe aiutato a
leggere anche questo tempo, così nuovo e così difficile, così impervio da
affrontare, come un tempo di grazia per la nostra città e per la nostra
chiesa. Ci avrebbe invitato a sperare contro ogni speranza e ci
indicherebbe, con il suo esempio, la via della testimonianza dicendo con il
salmista: Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia. Nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente da
gettare, ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni.
Anche
don Cosimo, come altri sacerdoti e laici della nostra città e della nostra
chiesa, ha seminato nelle lacrime del suo popolo con cui spesso ha mischiato le
sue. “La fede deve sapere di umano”
soleva ripetere don Cosimo e anche in questo ho trovato un’assonanza con una
frase di papa Francesco “Il pastore deve
avere l’odore del gregge”.
L’odore, non il profumo. Il gregge profumerà di grazia se il suo pastore si chinerà
sulle sue pecore, soprattutto quando hanno il cattivo odore del peccato della
mancanza di speranza. Perché la Chiesa deve essere questo, la fontana del
villaggio, l’ospedale da campo per la povera gente.
Chiudo
con una recente e bella immagine: l’abbraccio alla veglia per le vittime della
mafia, in ricordo di don Beppe Diana, tra Papa Francesco e don Luigi
Ciotti. Il successore di Pietro e il sacerdote-simbolo del cattolicesimo di
frontiera di cui don Cosimo fu un testimone sono entrati in chiesa tenendosi
per mano. Un segno profetico: nella Chiesa anche agli «apostoli degli ultimi»
viene riservato un posto d’onore.
Quasi
una «riabilitazione» per i «pretacci» che in passato furono quasi in
odore di eterodossia per l’insofferenza al conformismo del potere e la
vicinanza ai tormenti della società contemporanea.
Nel
silenzio della sua testimonianza don Cosimo ha preparato svolte come queste. Lo
ringraziamo per essere stato un credente- credibile. Un uomo di Dio. Un
testimone di Gesù Cristo crocifisso. Gli chiediamo di aiutarci ancora a
seminare tra le lacrime.