Certe storie fanno girare davvero le pale, eoliche e non.
Perché fra un oggetto inanimato – che promette di donare non certo gratis et amore Dei energia pulita all’universo mondo, con tanto di sconti sulle bollette che mai arriveranno – e un essere vivente, tutti, e sottolineo tutti, compresi salaci commentatori web e austeri burocrati onniscienti, saprebbero da che parte stare.
Eppoi, voi andreste mai a vedere una partita allo Stadio “Città dei Pannelli Fotovoltaici”? Immagino le facce sbigottite dei telespettatori, quando sentiranno i cronisti pronunciare il nome dell’impianto sportivo…
Dunque, dinanzi alla ridda di insigni pareri variegati e al sottobosco infido di vili like di questi giorni, che hanno corredato gli articoli pubblicati dalla testata che mi pregio di dirigere, sento il dovere di raccontare quel che io stesso ho dolorosamente osservato.
Fermo restando sempre il rispetto per la storia di ognuno, poi viene il resto. Ho iniziato a scrivere ormai 35 anni fa, quando manco esistevano i computer, molti eroi odierni non erano ancora nati e un bel numero di tuttologi facevano altro, ergo ho imparato subito che il mestiere di giornalista si inverava nelle suole consunte delle scarpe e nella qualità della visione del mondo.
Allora, quel che dico io, nel conflitto fra Natura e Tecnologia non dovrebbe esserci partita. Sì, le parti in causa, quand’anche condizionate dalle simpatie politiche che le portano a protendere per la bontà delle decisioni della fazione d’appartenenza o viceversa per la nocività di esse, dovrebbero andare a vedere con i loro occhi cosa succede ad un appezzamento sconvolto, oltraggiato, stuprato dall’arrivo baldanzoso dei pannelli fotovoltaici.
Bene, al netto di leggi, articoli, commi, green et similia – oh, anche sotto questo pezzo piomberanno i soloni, figurarsi -, quegli ulivi espiantati – senza contare i sacrifici, le rinunce, le difficoltà, la passione, la dedizione, la sofferenza degli agricoltori che li hanno curati e coltivati secondo quel sacro “labor improbus” di virgiliana memoria, che pure “omnia vincebat” -, che un tempo somigliavano a uomini che si ritorcono dal dolore o che si sbellicano dalle risate (ohibò, non saranno per caso anche loro esseri viventi?), con i rami levati al cielo come braccia oranti, con le foglie argentee come la luna e verdi come lo smeraldo, prima finiscono simili a disarticolate marionette conficcate dentro la terra, che, già stata color tabacco, nel frattempo è divenuta grigia, livida, pallida poltiglia, e poi portate chissà dove – non credete alle favole per cui pare che saranno ripiantati, mai successo, se non per meno della metà di essi -, ché presto quel campo verrà spianato per far posto a quelle lastre che fintamente specchiano l’azzurro.
Uno scenario postatomico.
Di una bruttezza disperante, mostruosa, sconfortante.
Tutto sembra disanimato. Spento. Morto. Punto.
Poi, fate quel che volete…