È sabato mattina, un gruppo di uomini
e donne si prepara a intavolare una discussione che si preannuncia tumultuosa.
Un giornalismo sempre più alla deriva, infatti, rende impellente una revisione
dell’Albo dei pubblicisti.
Il provvedimento è presentato come senz’altro
doloroso ma necessario, per provare a ridare dignità a quanti svolgono la
professione con passione, studio e un sentito amore per la verità.
“Quel
12 luglio eravamo consapevoli di prendere una decisione impopolare”,
dichiara il presidente dell’Ordine Valentino Losito in tutta risposta ai
brontolii dei giovani pubblicisti presenti in sala, “ma si tratta solo di applicare la legge n.69 del 3 febbraio 1963”. Il riferimento è alla legge Gonella, che disciplina la suddivisione dei
giornalisti in professionisti e pubblicisti, attribuendo a questi ultimi “un’attività giornalistica non occasionale e
retribuita”.
Standomene rintanata in un cantuccio, osservo la scena con un distacco
emotivo e intellettuale che, se da un lato mi consente di gustare ogni singolo
istante, dall’altro fa sì che la mia mente percorra sentieri imbattuti.
Volti imberbi s’infiammano, smorfie di dissenso s’affacciano su bocche
contorte e, di tanto in tanto, scrosciano applausi d’esaltazione bambina. Negli
interventi di quei pubblicisti martirizzati, poi, una lunga serie di nemici comuni
da abbattere: gli editori che sfruttano, l’Ordine che perseguita, il sistema
che non funziona. In fondo, si sa che i mostri albergano sempre negli animi
altrui e mai nei nostri.
Così, dapprima con ritrosia e poi con crescente audacia, una riflessione
s’affaccia alla mia mente di venticinquenne.
“È giusto che un giovane insegua a
qualsiasi prezzo un obiettivo, foss’anche un sogno?”, mi chiedo in gran
segreto.
Ma la risposta maturerà solo alcuni
giorni dopo.
Leggo per caso un’analisi del giornalismo dei nostri giorni pubblicata
su Le Nouvel Economiste, col titolo “Darwinisme
numérique: le futur du journalisme” e ne emerge un quadro della professione
confusionario e disperante. Ma a lasciarmi l’amaro in bocca è soprattutto il
punto in cui si fa esplicito riferimento proprio a noi giovani, come “una massa di giornalisti poveri, impegnati
in piccole aziende fragili e incapaci di finanziare la loro formazione e la
loro carriera, che dovranno piegarsi a qualsiasi compromesso”.
Una definizione che trovo subito inaccettabile, perché in opposizione
con quei principi su cui il giornalismo fonda la sua ragion d’essere e da cui i
giovani non devono mai discostarsi nella scalata verso un sogno: la formazione
e la cultura, il rifiuto di qualsiasi compromesso.
In fondo, perseguire l’obiettivo precipuo della propria vita e piegare
la testa non è come volare verso un cielo greve e soffocante? Rilasciare
dichiarazioni false, accettare di svendere il proprio lavoro, innescare una
concorrenza sleale non significa agire nel perimetro dell’illegalità e
alimentare un sistema che emana un miasma di impostura?
Probabilmente, è preferibile trovare il coraggio di spiegare le ali
verso un altro orizzonte, che sia meno rispondente al sentire del proprio cuore
ma più dignitoso.
“Fate come gli alberi: cambiate le
foglie e conservate le radici”, scrive il più grande romanziere
dell’Ottocento francese, “Quindi,
cambiate le vostre idee ma conservate i vostri principi”. Un invito
accorato a non cambiare valori, perché nulla vale l’integrità morale e il
rispetto del lavoro altrui.
Né un’idea né tantomeno un sogno.
“Se ne fossi capace, andrei a fare
le pizze in Germania”, mi ha detto un giorno un giornalista professionista
con un fardello di vent’anni d’esperienza sulle spalle e che, da qualche mese,
era stato sostituto nel lavoro da un giovane offertosi al massimo ribasso.
Nella sua voce, una celata disperazione che non dimenticherò mai e che
si è tradotta in un appello, tacito e al tempo stesso urlato, a condurre
un’unica comune battaglia.