“Gratuità, Cura, Fraternità”. Tre parole con cui si possono raccontare i Santi Medici, e che la comunità della Basilica ha saputo far proprie.
Le stesse parole che sono anche stella polare nel cammino di fede di don Vito Piccinonna.
Il Vescovo di Rieti ieri è tornato nella sua città natale, Bitonto, per celebrare Cosma e Damiano in occasione della loro festa liturgica.
Ai Santi Anargiri ha voluto rivolgersi Mons. Piccinonna, con una lettera che ha toccato il cuore della comunità bitontina e dei devoti.
Qui il testo:
Carissimi fratelli miei e nostri, Cosma e Damiano,
spero con la vostra complicità di essere perdonato se Vi affido in questo momento così solenne una Lettera. Desidero leggerla ad alta voce, dinanzi a questa comunità che amo e porto nel cuore tra le cose più care della mia vita e che nemmeno la distanza può portare via dal cuore. Leggo ad alta voce onorato di avere anch’io, tra gli amici, dei confidenti come Voi. Sento di voler esprimere così ciò che in tantissimi in questo luogo vi hanno tributato magari attraverso un “ex-voto”. Vi prego, accoglietela così questa lettera, con semplicità ed infinita gratitudine.
Vi confesso Illustri Medici, che proprio in questo luogo sacro sono stato spesso testimone anch’io dell’incontro di tanta gente avvenuto con voi soprattutto attraverso il valore umanissimo e pure divino delle lacrime. Sì, c’è un magistero delle lacrime da cui si scorge ciò che più conta nella vita. A questa scuola mi sono sentito sempre alunno, mai maestro. Ci si sente piccoli, infatti, dinanzi alle premure di una mamma magari con un bimbo ammalato. Chi può dimenticare di bimbi portati qui in braccio da un genitore disperato a cui i medici non hanno dato speranze di guarigione? Quanti sono venuti a chiedere nel Vostro nome una benedizione o una parola di conforto o una consolazione che da nessun’altra parte si può attingere se non dal Cuore di Dio di cui Voi siete un palpito dolcissimo! Non ci sono libri di teologia che tengano davanti alle lacrime. E ho sempre avvertito che erano da Voi tutte raccolte e ascoltate, una ad una, rendendo vere le parole del salmista: “Le mie lacrime, nel tuo otre tu raccogli o mio Dio”. Fanno eco alle parole splendide, ascoltate nel Vangelo (Gv. 17) in questa Vostra festa liturgica, nella preghiera sacerdotale, parole pronunciate da Gesù nelle ore drammatiche e calde del Cenacolo, drammatiche per la violenza cieca che si stava per scatenare su di Lui e calde per un amore smodato manifestato “sino alla fine” (cfr. Gv. 13): un’opera di custodia ad oltranza, senza “se” e senza “ma”, dalla testa ai piedi, senza soste. E se non bastasse pure il salmista ci ha rinnovato la certezza di aver fatto bene a confidare in Dio, il quale ci custodisce e protegge come la pupilla dell’occhio. Che meraviglia amici miei! Dio ci ama in modo delicato, non fa chiasso … Sarà per questo che tante volte noi altri non riusciamo a vederlo… e gli gridiamo “Dove sei? Perché mi hai abbandonato?” E chi più di voi, Santi Martiri, può riconoscere il valore di questa fiducia che a noi pare languire ad ogni istante? Proprio voi, come i fratelli Maccabei (l Lettura) aiutati dalla vostra mamma Teodata foste aiutati a perseverare pure nel crogiuolo della prova che si maturò in martirio. Non vi siete tirati indietro. Non avete temuto di perdere la vita, sapendo di avere fissato altrove la vostra Speranza, come un’àncora gettata nel cuore di Dio. Oggi noi facciamo fatica ad avvertire accanto adulti significativi di questo calibro, c’è una penuria di umanità impressionante, la stessa che ha portato papa Francesco qualche giorno fa a Marsiglia a chiamare in causa la nostra sedicente cristiana Europa che “da culla della civiltà è diventata tomba della dignità”. Voi non vi siete nascosti dall’ira furiosa del governatore Lisia. Avete perso la testa, forse per prolungare quel perdere la testa per Gesù che oggi non incontra molti consensi e nemmeno tante imitazioni, anche forse per un annuncio evangelico da parte delle nostre comunità cristiane che non trafigge più il cuore, quasi innocuo perché carico spesso di buon senso e scarno di Vangelo, come pure di una testimonianza cristiana divenuta fiacca e insignificante, come luce posta sotto il moggio anziché sopra il lucerniere. E si prolunga la fila di tanti che restano al buio anche a causa nostra…
Dinanzi a Voi, cari fratelli Cosma e Damiano il Vangelo lo avvertiamo vero, palpabile. Non l’altisonanza delle parole ma la concretezza della vita ci seduce ancora di Voi. Perciò non vorremmo staccarcene. Molti a Voi ricorrono come fece quella donna emorroissa che voleva anche solo toccare il mantello di Gesù per essere guarita. Fu così anche per quella donna pagana, un’altra abusiva, secondo i principali circoli religiosi del tempo: sapeva che anche solo le briciole avrebbero fatto miracoli! Certo noi predicatori ci siamo inventati tante giuste parole da elargire e i fedeli si sono pure abituati a non andare oltre un buon galateo … Abbiamo imparato a dire che “non bisogna accontentarsi di queste modalità”, che “la pietà popolare va evangelizzata e purificata”… e forse nel frattempo pur senza volerlo vi abbiamo allontanato dal po-polo, in nome di giusti princìpi, si intende. Ma sono certo che voi non retrocedete. Non è un glorioso altare a tenervi distanti. Questo popolo, accompagnato da tanti devoti che Vi portano per tante ore per le strade della città nella III Domenica di Ottobre, sa bene in fondo che siete voi a portare noi e ci riconsegnate la bellissima certezza di non essere soli nel cammino della vita, anche quando tristezza e pianto sembrano smentire le promesse di Dio.
Con questa Lettera, pensando di leggere anche nel cuore di molti, vorrei dirVi grazie per tre parole che anch’io ho viste vive, in questi luoghi, nel Vostro Nome: gratuità, cura, fraternità. Fatti più che parole vissute insieme da sacerdoti e laici, da piccoli e grandi, da lavoratori e volontari, dentro un sogno chiamato a diventare realtà, col desiderio temerario di organivare la .sperana (sogno faticoso perché a organizzare sfiducia e disperazione è più facile e si fa prima …). Questo sogno chiama ancora oggi in causa tanti come testimoni di un Dio che si fa vicino e prossimo, particolarmente presente Egli stesso negli ammalati, negli affamati di pane e di speranza, nei migranti, nei senza dimora, nei giovani vittime delle dipendenze, nelle donne e nei bimbi a cui si vorrebbe impoverire il domani. Spesso pensiamo di portare Dio a loro e non ci accorgiamo che invece è Lui stesso che ci viene a cercare in loro! Voi Cosma e Damiano rendete viva e palpitante la parabola del Samaritano e mi pare vogliate voi stessa affidarla anche a noi come una traccia sicura per la vita, perché non risultino, le nostre, parole predicate ma non praticate che ci fanno stare comodi e con le mani in tasca per timore di sbagliare. Mi vengono in aiuto ancora le parole del grande papa Francesco: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e .sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicureue» (Evangelii Gaudium, n. 49).
Cosma e Damiano, vi sentiamo soprattutto Intercessori. È per questo che vi chiediamo di renderci finalmente servi, a tempo pieno, di tutti, senza gusci protettivi, senza riflettori addosso, forti solo del coraggio che viene dal Vangelo. Intercedete per noi perché non si avverino su di noi le parole del caro don Tonino Bello: Chi non vive per servire, non serve per vivere.
Sì, liberateci dall’ossessione di noi stessi, del nostro io, del tornaconto, rendeteci poveri di modo che in noi stessi cerchiamo di avere, come Voi, gli stessi lineamenti di Cristo Gesù, per curvarci meglio sui malcapitati di questa storia che, oggi come ieri, non smette di mietere vittime.
Cari Santi Medici, vorrei ricordare ora con il Vostro popolo l’episodio di Palladia, la donna emorroissa che la leggenda aurea racconta, come guarita dopo aver fatto ricorso inutilmente ad una medicina cinica e disumana, che l’aveva portata sul lastrico.
Così, cari Cosma e Damiano, vi ho immaginato entrare nelle case delle tante Palladia del nostro tempo. Vi ho visto entrare nelle camere del “nostro” Hospice, come in quelle dei tanti ospedali, come nelle case dove i letti sono diventati dei veri altari di luce. Sì, vi ho visto entrare e mi sono permesso, sia pur da lontano, come tanti, di seguirvi, di provare a “rubarvi il mestiere”. Non prendetela come una intrusione, né tantomeno come tentativo di pubblicizzare il vostro operato. So bene che voi siete gli anargiri, so bene che siete quasi schivi ai nostri grazie perché solo in Cristo bisogna aver fede e guarire e che voi non siete che suoi strumenti. So bene che tu, Cosma sulla gratuità non hai voluto fare sconti a nessuno, nemmeno a tuo fratello Damiano. L’arte ti ha sempre dipinto come austero e rigido su questo punto. E oggi, nel nostro tempo così ammalato di like, avresti molto da rimproverarci se provassimo a raccontare sui social quel che è avvenuto nella casa di Palladia: quel giorno non perdonasti a Damiano di aver accettato tre misere uova, tutto quello che era rimasto a Palladia che voleva però esprimere così la sua grande gratitudine. Ti sto guardando, Cosma, e mi sembra di ascoltare ancora il tuo rimprovero. Mi stai dicendo che la gratitudine non è un optional della vita cristiana, ma il modo più profondo per rispondere a quell’amore gratuito di cui siamo circondati da sempre. Ecco mi sembra che questo Vostro gesto faccia eco alle parole del nostro comune Maestro: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. E a noi che, oggi più che mai, “non facciamo niente per niente” queste parole e più ancora il vostro esempio suscita, ve lo confesso, un disagio indescrivibile … davanti a Voi è convocata la nostra fragile umanità, una umanità che non può compiersi se non, come la vostra, con l’aiuto di Dio e con un’eccedenza di onestà e di amore.
Ma che succede? Vedo Palladia alzarsi da quel letto di dolore, come fece Gesù con la suocera di Pietro. Che emozione! Sul suo volto è spuntato il sorriso mentre voi continuate ad accarezzarle il capo e le mani. Sto imparando che cosa significhi curare, prendersi cura. Vi sta raccontando la sua vita, le sue ferite, le sue amarezze come le sue gioie. E voi siete lì accanto a lei con questo atteggiamento di ascolto profondo. Ascoltandola in quel santo modo la state facendo sentire unica. Avete ancora la pazienza che da noi è sparita di star seduti ad ascoltare. A Damiano nel frattempo è scesa una lacrima che racconta meglio di mille prediche la com-passione di Gesù. Grazie Cosma e Damiano perché attraverso Voi ci pare di vedere al vivo Gesù, quel suo attardarsi con le folle stanche e sfinite come pecore senza pastore. Attraverso Voi vediamo al vivo Gesù che ancora oggi tocca i lebbrosi, guarisce, risuscita, perdona, rimette in piedi. Curare è dire anche ad un malato che la tua biografia mi è cara su tutto, che tu sei amato dentro le tue fragilità e le tue ferite. Io credo che quello che ha salvato Palladia, non sono stati gli unguenti o le medicine, né tanto meno i protocolli pur lodevoli della medicina del tempo. Certo queste sono cose importanti e ancora oggi, grazie anche alla Vostra intercessione, sappiamo quanto sia da incoraggiare la ricerca scientifica specie quando serve la vita e la vita di tutti, dal suo nascere sin al suo naturale tramonto. Ma c’è un di più che ho imparato guardandovi. C’è un valore aggiunto in quella umanità della cura, senza la quale ogni Palladia di ogni luogo e di ogni tempo smette di sentirsi persona e scade a numero, senza volto, una cavia, una cartella clinica, un codice fiscale… Vi vedo come la guardate Palladia. Ma soprattutto vedo Palladia come si sente guardata. È lo stesso sguardo di Gesù nei Vangeli, colmo di tenerezza. È lo stesso sguardo di Gesù verso i suoi amici che abbiamo contemplato oggi nel Vangelo del cenacolo. È lo sguardo innamorato di chi darebbe l’anima per la persona amata. Perché amare l’altro, anche a dispetto della morte, è dirgli: Tu non morirai (G. Marcel).
Che meraviglia questo incontro con Voi, questa sera, in questa casa. Palladia vi sta salutando e non ho potuto fare a meno di guardare il suo gesto furtivo di affidare a te Damiano il senso della sua gratitudine attraverso quelle tre uova. Sul volto di Damiano scorgo l’imbarazzo di dispiacere quella donna rifiutando il dono e anche la tua fermezza di restare fedele al patto con tuo fratello. Purtroppo non posso fare a meno di notare che state discutendo animatamente. La leggenda aurea di Jacopo da Varagine mi riporta il senso della vostra discussione. Un velo di tristezza sta avvolgendo ora quella stanza che fino ad ora era stata luminosissima. Riesco ad ascoltare le parole dure che tu Cosma stai rivolgendo a Damiano: “alla nostra morte non voglio essere seppellito accanto a te”. Quanta durezza in queste parole. Ma se da un lato questa tristezza mi sorprende profondamente, scorgo anche una grande umanità che mi riconcilia con la fatica di una santità ordinaria, dentro cui pure noi siamo coinvolti, con tutte le fatiche del caso. Una santità che non è rappresentata da effetti speciali, ma da una umanità che chiede di essere trasfigurata continuamente, non una tantum, dalla grazia e dalla misericordia di Cristo. Ma non è tutto perso! Quella crisi tutta umana non sarà l’ultima parola sulla vostra meravigliosa testimonianza di fraternità. Noi continuiamo a vedervi ancora insieme come modello di fraternità e soprattutto di laicità vera. Da Voi che non siete stati né vescovi, né sacerdoti, né diaconi, abbiamo ancora da imparare cosa significa essere soprattutto fratelli, con tutte le diversità di vedute che pure ci possono essere. Dio ci ha creati fratelli ma comunque unici, non uguali!
Nel giorno della Vostra morte violenta sarà presente un cammello che pronuncerà delle parole che oggi voglio prendere in prestito per consegnarle a questi miei fratelli e sorelle presenti in questa amata Basilica: “Non siano separati nella sepoltura perché non sono dissimili nel merito”. La fraternità è il segno distintivo dei credenti. Non ci può essere cristianesimo senza fraternità. Si possono celebrare anche i Sinodi sulla sinodalità e -Dio non voglia!!!- non accrescere nemmeno di un millimetro il nostro bisogno e impegno creativo di fraternità, carico anche di attenzioni e di disponibilità al perdono. Siamo chiamati ad attraversare crisi, incomprensioni e a permettere che sia Dio stesso a rimetterci insieme, magari anche per voce … di un cammello!
Starei ancora ore ed ore con voi, fratelli martiri Cosma e Damiano, ma si è fatto tardi ed io devo tornare nella mia Chiesa di Rieti. A lei dirò cosa mi porto ancora dalla mia bella Chiesa di origine. Niente di mio, niente che riguardi la mia persona se non il tanto bene ricevuto e che, indegnamente, custodisco anche per vostra complicità: Gratuità, Cura, Fraternità.
Un’ultima preghiera miei Santi Medici Cosma e Damiano. Vegliate su tutti sempre, sugli ammalati soprattutto. Abbiate un occhio di predilezione per questa speciale Clinica del corpo e dello spirito perché non dimentichi di essere stata toccata dalla Grazia dell’incontro con Cristo grazie alla Vostra testimonianza. Nei momenti di entusiasmo guardi a Dio come il Creatore e l’Architetto magnifico; nei momenti di stanchezza poggi sul cuore di Cristo il proprio capo. Suggerite ai cuori di questi amici e fratelli che queste tre parole siano sempre una eredità preziosa, pesante anche, ma ricevuta dal Vangelo di Gesù e da Voi Due trascritta in forma originalissima. Non sono verità assunte una volta per sempre, ma percorsi e proposte da vivere ogni giorno, sono parole che aprono il futuro, sempre, comunque e nonostante tutto.
E sappiano di far parte di un popolo che solo camminando vede aprirsi il cammino, certo che Dio anche nel deserto apre varchi, scrive speranze, sogna l’infinito.
Assieme a questo popolo, accettate Cosma e Damiano, il mio confidente e devoto Vi voglio bene.
Amen.
Vostro fratello Vito