L’estate ci sta sorvolando in tutta la sua stranezza.
Or piovosa, or torrida e assolata e vanno così anche i pensieri e i giorni che
trascorrono burrascosi.
S’ha nostalgia talvolta del lavoro e degli impegni del
resto dell’anno e ci si rifugia in un buon libro per fuggire dalla
quotidianità.
Ma che libro leggere in estate, magari sotto
l’ombrellone (speriamo meno dell’ombrello)?
Non mi sono mai preposta l’acquisto di un libro in
particolare e spesso, portata in libreria dalle pause universitarie o di svago,
ho sempre scelto lasciandomi guidare dalla curiosità.
È stata proprio questa la volta di quando, come sempre,
ho aperto questo libro nero di cui conoscevo già l’autore che segnava sulla
dedica “La vera musica è tra le note” (Mozart).
La vera musica è nei silenzi e nei tanti sospiri che
sopraggiungono alla lettura de “Il
Violino nero” di Maxence Fermine.
Johannes
Karelsky era un genio della musica e del violino ed ogni giorno
la partitura della sua anima si arricchiva sempre di più.
Siamo catapultati in una Parigi del 1795, a quei tempi
sinfonia di suoni, colori e luci e il suo cuore era aperto alla luce, laddove i
suoi occhi erano chiusi.
A dare a Johannes l’amore per il violino era stato un
incontro casuale quando aveva cinque anni: “lo zigano suonò e il bimbo ne rimase
ammaliato e sentì che quella lingua era l’unica che poteva legarlo al mondo”;così cominciò a suonare diventando famoso in tutta Parigi e a Vienna e a Madrid
e in tutta l’Europa.
Ma la notorietà gli portò tanta solitudine e la Patria
lo condusse alla guerra: fu proprio a Nizza, dove Bonaparte stava raccogliendo le truppe, che il piccolo genio diede
il suo addio alla musica, alla gloria, al successo: era l’alba del 2 aprile
1796.
“Laggiù
l’aspettava una marcia militare fatta di mitraglia, sangue e morte”. Karelsky
rimase ferito e convalescente per molto tempo e al suo risveglio trovò il
violino fracassato in mille pezzi.
Quando l’esercito francese il 16 maggio 1797 entrò a
Venezia, “lo strepitio e la furia degli
uomini furono cristallizzati dalla bellezza e dall’immobilità della città” ed
è proprio qui che il musicista fa ancora un incontro casuale: Erasmus.
Il vecchietto veneziano era un liutaio e abitava “una delle case più antiche ed inospitali di
Venezia” ma aveva su uno scaffale un violino per Johannes e aveva tre cose
di cui andar fiero: un violino nero dal suono strano, una scacchiera, e una
grappa senza età.
Ma Johannes era sempre più incuriosito da quel violino
nero: “l’ho suonato una volta tanto tempo fa – raccontò l’anziano – da allora non l’ho più toccato. È come
l’amore. Quando hai amato una volta fai di tutto per dimenticartene. Non c’è niente di peggio che essere stati
felici una volta nella vita. Da quel momento in poi tutto il resto ti rende
infelice, anche le cose più insignificanti”.
Anche il giovane aveva un segreto, una partitura di
diciassettemilaseicentoventitrè note, senza contare le pause.
Udì nella casa del vecchio una voce lieve, di una
donna, levarsi e questa cantava semplicemente per Dio: ne rimase estasiato e “possedeva quella parte di sogno che era in
lui”, era l’unica che avrebbe potuto avvicinarsi a quella di un violino.
Lo era stato anche per Erasmus. Questa, per il liutaio, era la contessina Carla Fornari: fu proprio il padre
della giovane cantante più famosa di Venezia a commissionare al giovane un
violino tutto per lei.
Erasmus aveva vissuto la sua formazione a Cremona dal
maestro Antonio Stradivari e da suo
figlio Francesco: alla sua morte la bottega diventò sua e cominciò a fabbricare
violini cercando di mantenere la passione, la cura e l’amore che i suoi
predecessori gli avevano trasmesso.
Ma l’amore per la musica si evolse anche in amore per
Carla: “Ero innamorato come lo si è a quell’età senza accorgermi del tempo che
passa“. Un tempo troppo breve perché la contessina si ammalò
gravemente.
I suoi sogni assieme al suo povero cuore furono
spezzati e scappò a Parigi.
Tornato a Venezia fu troppo tardi. Carla era morta e
lui rimase lì ad udire nel pulviscolo veneziano la dolce melodia della sua
amata su un violino nero che aveva lo stesso corvino dei suoi occhi e dei suoi lunghi capelli.
Johannes nell’ascoltare la storia rimase a lungo senza
proferir parola.
Era un freddo gennaio 1798 ed Erasmus quella notte morì “tra il vento che pareva piangere tra le pietre“.
Qualche giorno dopo il giovane Johannes lasciava
Venezia con l’esercito per rientrare a Parigi e le parole di Erasmus si tuffavano nelle onde della memoria del cuore.
“La tua opera Johannes… prima di scriverla dovresti viverla”
“E’ vero”, disse Johannes. “Non ci avevo mai pensato. Non avevo nemmeno mai pensato che vivere potesse essere utile”.
“Eppure io so come rendere interessante la tua vita”.
“Ah sì? E come?”
“Andando a cercare la parte di sogno che ti spetta di diritto”
“E dov’è, questa parte di sogno?“
“Un po’ dovunque nel mondo. Ma soprattutto dentro di te…“.
Ci avrebbe messo 31 anni per finire la sua opera e per finire, tra le fiamme, la sua vita.