Il perché sia stata ignorata e zittita per quasi un secolo è, al tempo stesso, un mistero, una vergogna e qualcosa di inaccettabile.
D’altronde, serve una dose di sano cinismo per nascondere sotto chissà quanti e quali cassetti una delle tragedie minerarie più grandi d’America, d’Italia e della storia, e talmente intensa che nessuno mai, dopo quasi 112 anni, ha accertato quante persone abbiano perso la vita. Con le stime ufficiali ci si è fermati a 362, ma sono troppe poche considerando che in quella miniera della città impronunciabile che si chiama Monongah c’erano quasi 1.000 persone, a netta, nettissima maggioranza nostri connazionali.
Facile capire, dunque, che quella di questo piccolo centro del West Virginia, negli Stati Uniti, è una strage molto più grave di quella di Marcinelle, in Belgio, l’8 agosto 1956, dove i morti nostrani sono stati “soltanto” 136. Ma l’eco mediatico è ed è stato completamente diverso. Rendere cadaveri questi uomini più di quanto non lo siano davvero.
Il calendario, allora, dice che siamo nel 1907. Con la storia vuol dire essere ben all’interno di uno dei periodi, più intensi e drammatici, dell’esodo di massa di italiani verso gli Stati Uniti, alla ricerca disperata di un lavoro. Che, nella maggior parte dei casi, era un qualcosa che oggi definiremmo “usurante”. Miniere, appunto. Con condizioni lavorative, di sicurezza, di paga e di tutto ciò che possa rientrare nella categoria “umano” che proprio così non era per nulla. E, se poi eri straniero, la vergogna era ancora peggiore.
Mancava qualche minuto alle 10.30 del 6 dicembre. All’improvviso, nelle miniere di carbone numero sei e otto della compagnia “Fairmont Coal Company” si verifica una serie di potenti esplosioni causate dal gas. In pochi minuti, centinaia di lavoratori vengono travolti, schiacciati nel crollo dei tunnel, bruciati dalle fiamme, soffocati dal fumo. Il boato si è propagato fino a 30 km chilometri di distanza, e sono stati necessari molti giorni per recuperare i corpi, che erano carbonizzati e sfigurati, in gran parte irriconoscibili.
Soltanto in cinque sopravvivono, e sempre nessuno ha mai capito quanti sono stati i deceduti. Dapprima 362 (cifra diventata ufficiale ma più per questione di comodo che per altro), poi oltre 500; 620 (un addetto alle sepolture del Municipio di Monongah), e, addirittura, 956 (un giornale del 9 marzo 1908). Gli italiani? Una enormità. Ufficialmente 171. Soprattutto molisani, abruzzesi e calabresi.
Una carneficina, in pratica. E c’è subito da aggiungere un dettaglio, magari non strettamente legato all’accaduto ma significativo. Si chiama paga. Lo stipendio non era affatto uguale per tutti. Gli adulti guadagnavano dieci centesimi l’ora, i ragazzini ricevevano una mancia legata alla quantità di carbone che portavano in superficie. Vivevano in baracche di legno ricoperte di carta catramata, in dieci per stanza, pagando anche dieci dollari al mese, metà di quanto guadagnavano.
Perché queste esplosioni? Un accumulo di gas. Il giorno precedente le miniere erano rimaste chiuse e per risparmiare energia gli aeratori sono stati tenuti spenti. Scelta fatale, perché questo, secondo alcuni ricercatori, avrebbe determinato l’accumulo di gas alla base dell’esplosione.
Nonostante le indagini, però, le reali cause scatenanti l’immane tragedia non sono mai state accertate.
Fondamentale, a inizio secolo, per rompere la linea Maginot dell’oblio alzata sulla vicenda è stata la prorompente e insistente azione di un giornalista italiano, Domenico Porpiglia, il quale, direttore di “Gente d’Italia”, sulla base di alcuni semplici elementi, ci ha costruito tutta una lunga ricerca storico-giornalistica.