“Nella vita sono importanti tre cose: omertà, rispetto e dignità dell’uomo”. Queste sono alcune delle parole emerse dalle intercettazioni su Giuseppe Mercante, dell’omonimo clan barese, finito ieri tra i 104 arresti dell’Operazione “Pandora”.
Un “uomo di pace” per la sua capacità di “comporre i dissidi interni al clan e con altri gruppi criminali”. Anche quelli delle città vicine, anche con quelli di Bitonto (ecco i nomi dei 21 arrestati: https://bit.ly/2yrn99g)
L’inchiesta portata avanti dai Carabinieri del Ros è stata coordinata dai pm Giuseppe Gatti, Lidia Giorgio, Renato Nitti e dall’aggiunto Francesco Giannella. L’attività è stata portata avanti grazie a «carte processuali, anche di 30 anni fa, 50 collaboratori di giustizia ascoltati, riascoltati, ad uno studio attento del significato delle affiliazioni e gli effetti che queste hanno prodotto in più di 4000 pagine di informativa. Le cerimonie di battesimo, l’innalzamento con diritti e doveri, come se fossero ordinamenti giuridici a sé», ha sottolineato il dott. Renato Nitti.
«Erano delle lezioni di mafia vere e proprie – ha spiegato la Pm Lidia Giorgio -. Soprattutto il capo clan, Giuseppe Mercante, decideva se “tu devi vivere o se devi morire” e si occupava delle affiliazioni, spesso anche in carcere, delle “favelle” e degli apparentamenti. Ma aveva uno sguardo anche alla magistratura: era uomo di pace perché “non bisognava fare il gioco della legge” e, quindi, “stare in pace per poter guadagnare”».
«C’è un dato sociologico enorme che emerge – dice il Pm Giuseppe Gatti -. I gruppi criminali originariamente venivano visti come sodalizi autonomi, come se fossero riusciti ad avere una fama autonoma e di controllo. C’è stata difficoltà, in passato, a riconoscere l’associazione mafiosa al gruppo di Domenico Conte e dei Cassano, a Bitonto (Operazione “Harvest”, ndr). Queste erano articolazioni periferiche, ripartizioni territoriali della provincia. Il clan “Mercante – Diomede” e i “Capriati” avevano articolazioni a Bitonto, sfruttando anche una convivenza carceraria. E questi sono intervenuti anche in caso di guerre interne, i “padri fondatori” si facevano da garanti».
Lo stesso Mimmo Conte era “luogotenente” del clan Capriati e questo lo si evince dal tentato omicidio a suo carico dell’8 settembre 2013, leggi qui: https://bit.ly/2I22LuC
«La criminalità barese – ha proseguito il Procuratore Nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho – è formata da una struttura ben radicata: non si tratta di clan fluidi, modificabili, ma di gruppi che si sono rafforzati nel tempo, in almeno un decennio, con le affiliazioni secondo rituali propriamente camorristici. Questa criminalità è proiettata verso un sistema che vede gruppi consorziati soprattutto nei canali di approvvigionamento della droga e delle attività di riciclaggio che arriva fino alla ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e Camorra».
Anche l’acquisto stesso della sostanza stupefacente avveniva «con la mafia calabrese e siciliana – ha sottolineato il Procuratore Giuseppe Volpe – e poi piazzato sul territorio. Ma questo avviene anche una tacita complicità di soggetti apparentemente “puliti” che consentono al malaffare di crescere. Politici e imprenditori che spesso si fingono eroi dell’antimafia e non lo sono affatto».