E ora che la vita non c’è più, che resta da fare?
I sorrisi, le avventure, le “cazzate”, il divertimento, le trasgressioni, il ballo in discoteca e poi?
Uno schianto ed è tutto finito.
Stop. Il capolinea è lì. Tremendo e inesorabile.
Sì, diranno tutti che non ti dimenticheranno mai – e molti sono sinceri e lo pensano per davvero. Ma quanto durerà? – e che sei un angelo – sarà per questo che i corpi disanimati vengono subito coperti da un lenzuolo bianco, sudario triste d’un destino assurdo? – ma, intanto, c’è solo il vuoto, oggi. Dentro, fuori, ovunque.
Un vuoto sgomento pieno di nulla.
L’abisso di dolore nel quale stanno affondando i parenti disperati. Le loro urla ancora feriscono la “campana fioca del cielo”.
Un cucciolo cresciuto e d’improvviso perduto ti sommerge di sensi di colpa grossi quanto macigni invincibili.
Sopravvivere ad un figlio è la condanna più straziante che un genitore possa subire.
Gli sguardi smarriti degli amici che non ti trovano più accanto, soprattutto nel momento del bisogno, perché a te bastava una parola per ridonare luce persino alle giornate più buie della comitiva…
Ma, poi, si può ad un’età così verde essere su una strada così pericolosa, una domenica di finta primavera?
Si può morire all’alba come capita ai sogni bambini?
Non è che forse la turboesistenza sta facendo un crudele falò di tutte le esperienze che, un tempo neppur tanto lontano, si vivevano gradualmente e che, prim’ancora che farci maturare dentro, ci davano la consapevolezza del cambiamento interiore, anche a costo di sacrifici e rinunce?
Avere tutto e subito, ad ogni costo, ci sta facendo dimenticare che siamo soprattutto “essere”?
Chiudere gli occhi e smemorarsi di vivere non vuol dire assolutamente sognare.
Sì, il piccolo resterà pure in pace, ma la comunità bitontina tutta, che ha perduto un fiore così piccolo, può trovare pace questo lunedì mattina, che non è un giorno qualsiasi, ma è sempre il giorno dopo d’una tragedia?