di Angelo Palmieri e Mario Sicolo
Ormai, si sono ridotte a celebrazioni di rito tutti quegli osanna rivolti a denunciare ogni forma di potere criminale e di sopraffazione. Appena spento il clamore del momento celebrativo, tutto ritorna sotto la coltre del “silenzio rimbombante”. Atteggiamenti di rassegnazione si sono incuneati dentro di noi insieme a perenni contese tra gli adoratori del potere criminale inneggianti alle eroiche gesta del padre-padrone, visto come elemento rassicurante e protettivo dinanzi ad un welfare fiacco, e i detrattori del malaffare sempre più impratichiti a garantire un presidio di resistenza e di civismo, fin troppo spesso disorganizzato e privo di una chiara visione.
Spesso, capita di ascoltare giovani e meno giovani che vivono in luoghi occupati dalla presenza del crimine organizzato. È del tutto evidente che le rappresentazioni degli atti banditeschi, oggetto di ripetute narrazioni, siano dispiegate in lungo e in largo: possono originare fascinosa attrazione, magari inorridire e provocare adesioni emotive oppure suscitare prerogative di difesa e rifiuto, se non pure produrre una sorta di identificazione con gli eroi negativi o con le vittime, con chi combatte il malaffare e oppone resistenza.
Le continue ferite inflitte al territorio bitontino sono lasciate sotto la sferza di proclami, perorazioni moraleggianti, fiumi di parole come per un prossimo appuntamento con le urne, che necessita di spot politici e mere dichiarazioni di intenti poco incidenti sui reali processi di cambiamento culturale e sociale.
Valga per tutti quel che sostiene lo scrittore Isaia Sales: «Se è esistita una politica senza mafia, è raro che si consolidi un potere mafioso senza colpevoli omissioni da parte delle istituzioni».
Le operazioni di Polizia coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bari nel corso degli anni, confermano che la “malapianta” ha radici in un terreno che ne garantisce, oltre ad una rapida riproduzione, la disponibilità alla fioritura di nuove colture, ovverosia nuove forme di malaffare che quasi sicuramente l’attuale crisi economica finisce ancor più per favorire.
Il portfolio dei gruppi delinquenziali, feudi dei clan baresi, è solo legato al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti o è ben più articolato? Vogliamo continuare a sottrarre alla vista che gran parte del denaro investito nelle scommesse è riciclaggio? Forse qualche approfondimento in più, ad opera delle autorità preposte, ci aiuterebbe a cogliere tutti quei segmenti di un mercato, di cui ben si conoscono trend e proiezioni redditizie, un mercato a cui imporre accordi economici in regime monopolistico, di cui la criminalità organizzata ne fiuta opportunità.
Possiamo forse sottacere le attività estorsive e la pervicace abilità ad inquinare ogni settore produttivo in affanno, attraverso l’esercizio di un controllo ossessivo e capillare del territorio?
Piaccia o non piaccia ammetterlo, il sistema produttivo locale è paurosamente esposto al giogo del riciclaggio e dell’usura e, dunque, del cosiddetto “welfare mafioso di prossimità”. Imprenditori in crisi di liquidità finiscono vinti dalla “mano invisibile” pronta ad agevolare l’accesso al credito facile. Si aggiunga pure la incresciosa possibilità da parte del potere criminale di farsi proprietari illegittimi di imprese o magari di entrare in partnership, acquisendo asset importanti e dissimulando astutamente la presenza ingombrante non senza il ricorso a “coazioni a ripetere vessatorie”. E non si sottovalutino affatto episodi di una gravità assoluta, dimenticati con lo scorrere dei decenni quasi a voler giustificare una impermeabilità del Palazzo alle insidie esterne, come buste contenenti pallottole recapitate a dirigenti comunali o automobili degli stessi dati alle fiamme.
Così la criminalità finisce per incistarsi in modo stabile e occulto in questi ambiti socioeconomici.
Si pensi pure alle famiglie esposte a fragilità strutturali, i cui componenti campano ad ore senza alcuna garanzia contrattuale o sono percettori di cassa integrazione insufficiente. E gli esiti di numerose indagini, nel recente passato, hanno dimostrato incontestabilmente come queste figure rappresentino il primo anello della catena malavitosa. Queste persone, infatti, a fronte di nessuna strategia politica pubblica, tesa a garantire il “minimo dignitoso garantito” – sarebbe alquanto immaginifico parlare di adeguati livelli di prestazioni sociali e di opportunità occupazionali – beneficiano della “pancia protettiva” di qualche mammasantissima per l’accesso a diritti altrimenti negati, vedasi ad esempio il diritto alla salute, giacché più volte si è rimarcato il fatto che il discrimine è “la variabile tempo” nella capacità di risposta alla complessità dei bisogni propri degli ultimi o di chi subisce gli effetti più drammatici dell’attuale emergenza sociale e pure sanitaria degli ultimi anni con riferimento al periodo pandemico.
Si delinea così una chiara strategia di governo dei clan – non viene meno per questo l’engagement di noti professionisti al di sopra di ogni sospetto – per il controllo di interi quartieri.
È chiaro, che dietro il proliferare di cotanta violenza giovanile (microcriminalità) nel nostro territorio, si nasconde una peculiare “lotta di classe” di ragazzi provenienti da famiglie senza istruzione e lavoro, dunque profondamente marginalizzate. Uno scontro di classe combattuto con le armi del sopruso e della prevaricazione. Ciò a giustificare un consolidato meccanismo di reclutamento dei ragazzi più vulnerabili ad opera dei clan locali. Ricordiamoci che la criminalità non è mai stata così “democratica“.
C’è un’evidente connessione, influenza tra condizioni sociali, economiche, culturali (cioè tassi di istruzione e di opportunità legali) e carriere criminali. Se le condizioni sociali in cui vivono e si formano migliaia di giovani ragazzi non vengono affrontate, esse si riverseranno contro il resto della nostra comunità. Sarebbe fuorviante e oltremodo di pessimo gusto parlare di “geni criminali nel sangue”, ma di una reciprocità di influenza. È una emergenza che è e rimane sociale e non giudiziaria. I quartieri generalmente ritenuti più problematici in termini di criminalità organizzata, senza con ciò stereotiparli o ridurli a sacche marginali di violenza, si confermano un vivaio appetibile per la malavita organizzata e forse, la politica locale di questi anni, in nome di un rilancio economico ed “estetico” del centro storico, ha colpevolmente omesso di adottare strumenti innovativi e alternativi in termini concreti alla devianza, magari coinvolgendo tutte quelle realtà associative del territorio che costituiscono da sempre un patrimonio inestimabile di esperienza e valori per la città. L’occupazione e la conseguente contaminazione positiva di porzioni di città tradizionalmente abbandonate nelle mani della malavita avrebbero dovuto generare condizioni socioculturali tendenti alla valorizzazione di modelli esistenziali differenti e alternativi all’inflazionato paradigma mafioso.
Si diffonde un ineluttabile fatalismo con il conseguente atteggiamento di rassegnata passività a tali fenomeni malavitosi, purtroppo sorretti da una disattenzione generale a più livelli di responsabilità e da una sorprendente afasia anche della politica locale, lasciando intravedere a debita distanza un movimento antimafia associabile ad un movimento di opinione o di personalismo astratto lontano dal porre la persona umana come fine della vita associata.
Si avverte il vuoto di un’anima collettiva, di un civismo che ci piace chiamare di resistenza, capace di presidiare ogni spazio indebitamente occupato dagli affarismi delle cosche di contro ad un “sentimento diffuso” di arrendevolezza e di silenzio (assenso!), spesso il terreno fertile per la crescita economica del potere mafioso.
Abbiamo il dovere civico, direi l’urgenza, di creare avamposti di legalità, capaci di visione politica e di opposizione che rinuncino alla tentazione di ridurre tutto a passerella e siano sospinti dal coraggio di “piccole azioni” di denuncia. Abbiamo bisogno di comitati civici spontanei per la promozione di attività atte a contrastare ogni forma di oppressione da parte della criminalità organizzata e di fenomeni di corruzione pubblica. Serve un nuovo scenario di cittadinanza attiva, non politicizzata – che abbia la possibilità di esprimersi nell’alveo dei luoghi deputati alla partecipazione diretta: a tal proposito, che fine hanno fatto i comitati di quartiere? E le consulte comunali? – per abbattere il muro della solitudine, capace di farsi scudo attorno a chi coraggiosamente si oppone alle diverse situazioni di ricatto e intimidazione mafiosa, un campo aperto di cittadinanza attiva che sappia tenere alta la guardia.