Di Angelo Palmieri, sociologo
Lampedusa, simbolo di confini infranti e speranze naufragate, torna a essere il teatro di una tragedia umana che scuote le coscienze, ma solo per il tempo di un titolo. Tra i resti di un barcone spezzato e i frammenti di vite interrotte, emerge una storia che non avrebbe mai dovuto essere raccontata: quella di una bambina di undici anni, sola, spaesata, custode di un dolore che nessuna infanzia dovrebbe conoscere.
Viene dalla Sierra Leone, portando con sé il peso di un passato segnato da miseria e conflitti. Ma il suo arrivo in Europa segna un epilogo straziante, non un inizio. Le sue lacrime si disperdono in un mare di indifferenza, in un continente che sembra aver dimenticato le lezioni del passato, intrappolato in una memoria selettiva che condanna il presente a ripetere le sue ombre.
Eppure, dietro ogni tragedia c’è una domanda che ci interpella. Non si tratta solo di numeri, di naufragi, di vittime: si tratta di noi. Che cosa stiamo diventando? La politica si irrigidisce, le risposte si frammentano, mentre i muri – siano essi di cemento o di parole – si alzano sempre più alti. Il grido di aiuto resta inascoltato e così il Mediterraneo diventa un abisso di morte, un luogo in cui vite si perdono insieme alle nostre omissioni.
Ci piace illuderci che il problema non ci riguardi, che sia una questione di confini lontani o di scelte individuali. Ma ogni barcone che si rovescia riflette il peso delle decisioni che non abbiamo preso e dei compromessi accettati per convenienza. Come possiamo guardare negli occhi quella bambina e continuare a parlare di “pace in terra agli uomini di buona volontà” senza sentire il peso di un fallimento collettivo?
Le festività natalizie si avvicinano, e con esse il richiamo a una riflessione che scavi oltre la superficie. Il Natale, quello vero, non è fatto di luci e canti che nascondono il buio, ma di una chiamata: sporcarsi le mani, costruire ponti invece di barriere, guardare il dolore senza distogliere lo sguardo.
Forse, allora, il nostro Natale potrà davvero illuminare il buio: non come menzogna consolatoria, ma come segno tangibile di un’umanità che si ritrova nel costruire solidarietà.
Sarà un racconto diverso, in cui quella bambina, insieme a tanti altri, trovi non solo la sopravvivenza, ma anche il rispetto. Un racconto in cui il mare cessi di essere un simbolo sterile di tragedie e torni a raccontare di possibilità.
Albert Camus, in una delle sue riflessioni più intense, scriveva: «Nel bel mezzo dell’inverno, ho infine imparato che vi era in me un’estate invincibile». Questo pensiero ci richiama a una verità profonda: anche nelle stagioni più buie della storia o della nostra vita, possiamo scoprire una forza interna capace di rigenerarsi e aprirsi al futuro.
Il Natale, allora, non sarà più una celebrazione statica e ripetitiva, ma una chiamata alla resistenza morale, un’occasione per far emergere quella “estate invincibile” che ognuno porta in sé, trasformando la speranza in azione concreta. Non si tratta solo di ricordare un evento, ma di incarnarne il significato, restituendo al mondo un messaggio di vita nuova.