Democristiano. Una parola oggi divenuta quasi un insulto. La stessa Democrazia Cristiana è, oggi, spesso accostata alla corruzione, agli accordi con la criminalità organizzata o, quando va bene, ad una politica eccessivamente moderata, incapace di prendere posizioni forti.
Giudizi che si soffermano sui fenomeni di collusione e corruzione. Ma non tengono conto che, oltre a ciò, c’è molto altro. C’è un partito che, per quasi mezzo secolo, ha dato voce ai cattolici italiani, ha rappresentato le istanze di una larga fetta di popolazione. Lo scudo crociato è stato, inoltre, il frutto di un lungo dibattito nel mondo cattolico italiano che affondava le radici nel Risorgimento. Per protesta verso l’annessione dello stato pontificio, nel 1874 papa Pio IX emanò la disposizione “Non expedit”, in cui dichiarò inaccettabile per i cattolici italiani partecipare alla vita politica nazionale. Divieto ufficialmente abrogato nel 1919 da papa Benedetto XV, ma già da metà ’800, nel mondo cattolico italiano, vi fu un grande fermento.
Come ricorda il professor Michele Giorgio, con la crescita dell’economia industriale e la formazione delle prime associazioni di operai che approdarono in politica sotto forma di partito, il sociologo Giuseppe Toniolo invitò i cattolici ad aprire gli occhi sulla condizione degli operai e ad organizzarsi politicamente, per offrire soluzioni alternative alla società liberale e a quelle socialiste.
Mentre infatti i socialisti proponevano l’autonomia dei lavoratori, il diritto di sciopero, l’associazionismo operaio, tra i cattolici si invocò la collaborazione tra datori e lavoratori e la costituzione di associazioni miste, la difesa della proprietà privata, l’armonia tra le classi sociali. Punti ribaditi nel 1891 con la Rerum Novarum di Papa Leone XIII, che teorizzò la costruzione di una democrazia tutelata e protetta dall’obbedienza alla Chiesa cattolica. Nacquero diverse organizzazioni sociali, ma da parte di alcuni cattolici si manifestò la volontà di attivarsi politicamente. Fu così che Romolo Murri fondò la Democrazia Cristiana, che assunse una posizione autonoma dalla Chiesa, non condivisa da quest’ultima che la sciolse permettendo però a Filippo Meda di fondare un altro partito che si adeguasse alle direttive della Santa Sede.
Alla visione di Meda, favorita dalla Chiesa anche in funzione antisocialista, si contrappose quella più laica di don Luigi Sturzo, che teorizzava un partito aconfessionale e laico.
«La Democrazia Cristiana affonda le sue radici nei valori enunciati da Sturzo» sottolinea Giorgio, convinto che quel partito «ha grandi meriti che devono essere riconosciuti. A partire dall’aver portato avanti la volontà di una democrazia popolare che partisse dalla persona e dai suoi diritti».
Il dibattito continuò, tra l’ala più clericale e quella più laica, fino all’affermarsi di Moro che intuì la necessità di dialogare con la sinistra, iniziando quel percorso poi interrotto bruscamente con il suo omicidio.
Dialogo che ebbe dei precedenti a Bitonto: «La nostra città fu la prima o tra le prime ad aver sperimentato un connubio tra i cattolici e i socialisti, con la giunta guidata da Domenico Saracino, prima che a sinistra prevalesse l’ala massimalista (nel ’71, si ebbe la giunto Psi-Pci guidata da Domenico Larovere e solo nell’85 la Dc ritornò ad avere un sindaco con Michele Laianca, ndr)».
Anche nella Dc cittadina, ci furono divisioni tra le varie correnti: «Io ero moroteo, insieme a Carmine Barbone, Giuseppe Modesto. Dall’altra parte c’erano i lattanziani, più ostili all’apertura alla sinistra».
«Era un partito vivace. Si discuteva molto. Spesso venivano in sezione personaggi di spicco come Moro e Lattanzio. C’era una sezione giovanile che si ispirava alle idee di La Pira e che era animata da Cosimo Coviello e, poi, Giovanni Procacci. C’era una vivacità che oggi non c’è più» ricorda Giorgio, aggiungendo che, a fare da cerniera tra il mondo politico e le parrocchie, c’erano i Comitati Civici di Luigi Gedda, «sciolti quando ci si accorse che, tramite questi, si voleva imporre la corrente clericale».
L’omicidio di Moro segnò per la Dc l’inizio di una crisi che si concluse con lo scioglimento, nel ’94. Una crisi che si accompagnò a quella che dagli anni ’70 iniziò ad interessare tutto il panorama politico italiano e che vide l’emergere di problemi come la corruzione.
«Venuti meno i finanziamenti pubblici, i partiti per continuare a vivere hanno dovuto far affidamento ai contributi dei propri esponenti, spesso avari, e alle tangenti. Ovunque. Sarebbe stato più giusto un controllo sui bilanci. Invece c’è stata la demonizzazione dei partiti, attraverso i media. Oggi, con i movimenti civici, c’è la personalizzazione più bieca della politica. A chi rispondono? Spesso non hanno neanche una sede. Bisogna riscoprire la funzione dei partiti di raccolta e di indirizzo del consenso. Funzione che richiede un’organizzazione del partito stesso. Bisogna tornare all’organizzazione» spiega il professore.