Tra i nuovi temi che si impongono nell’agenda politica italiana (e non solo) tra gli anni ’60 e gli anni ’70, uno dei principali, se non il principale, è senza ombra di dubbio il femminismo.
Tra i due decenni, infatti, si ha la cosiddetta “seconda ondata femminista”, che vide nella legge sul divorzio e nel fallimento del referendum che tentò di abrogarla i primi e più importanti successi, seguiti, nel ’78, dalla legge per regolarizzare l’aborto. Ma prima di raccontare quel che fu il referendum del ’74 in Italia e a Bitonto (lo faremo domenica prossima), è utile fare una piccola ricostruzione storica del movimento femminista che, a partire dal XIX secolo e continuando nel XX, si affermò anche in Italia, nonostante gli ostacoli sociali e culturali che ancora resistevano nella società italiana.
Prima di proseguire facciamo un breve salto indietro nel tempo, per comprendere il processo storico che ha portato, nei secoli, all’affermazione di un movimento culturale sensibile alla sempre maggiore emancipazione della donna e all’uguaglianza di genere. Un fenomeno che affonda le proprie radici nel rinascimento (anche se fenomeni che hanno anticipato il femminismo moderno ci sono state anche nelle epoche precedenti, nel Medioevo e anche prima, in Italia e nel mondo), quando si cominciò a lottare per aprire l’istruzione anche alle donne.
Rafforzandosi nel corso dei secoli con l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese, si giunse così a quella che, fra i secoli XIX e XX, fu la prima ondata femminista. Eguaglianza di genere, nel campo dei diritti, della possibilità di accedere al voto, dell’accesso al lavoro furono gli obiettivi che perseguì, in questa fase, il femminismo, che riuscì, in diversi paesi, ad ottenere diverse conquiste sociali. Un forte incentivo all’emancipazione della donna fu rappresentato dalle guerre. Sì, proprio così. Nella loro drammaticità, le guerre consentirono alle donne di conquistare quell’emancipazione tanto sognata. Lo abbiamo visto, al Sud Italia, già con le azioni dei briganti contro i sabaudi, che videro un forte ruolo della donna. Ma, a dare un forte incentivo fu la Prima Guerra Mondiale.
L’assenza degli uomini, partiti per il fronte, costrinse le donne ad uscire di casa, a far cose tradizionalmente di competenza maschile. Per necessità e, per la prima volta, senza il timore di essere giudicate negativamente. Diventarono sarte, operaie, infermiere e, con entusiasmo, aiutarono l’uomo impegnato al fronte, conquistando una nuova autonomia a cui non vollero affatto rinunciare quando, finita la guerra, venne chiesto loro di tornare sui propri passi e cedere quelle posizioni nuovamente agli uomini.
A testimonianza di tutto ciò, un ampio carteggio, costituito dalle miriadi di lettere che le donne scrivevano ed inviavano per i più svariati motivi. Lettere che sono conservate anche negli archivi del comune di Bitonto.
«Nell’archivio comunale c’è un ricco carteggio che nasconde storie nascoste di donne comuni che chiedono al sindaco la licenza agricola, indennizzi per l’assistenza ai feriti, o chiedono di poter spedire viveri per aiutare gli uomini in trincea» disse, qualche anno fa, Nicola Pice, all’epoca presidente del Centro Ricerche di Storia e Arte – Bitonto, in occasione dell’inaugurazione di una mostra, nella chiesa di San Giorgio, proprio sul ruolo della donna durante le guerre del ‘900.
Il ventennio fascista rappresentò una battuta d’arresto per le battaglie femministe, avversate dall’ideologia del regime. L’unica conquista fu il diritto di voto, limitato alle sole elezioni locali. Diritto fittizio, tuttavia, dal momento che fu annullato con la riforma podestarile che, introducendo la figura del podestà, annullò l’elezione di sindaco e consiglio da parte dei cittadini, sostituendola con la nomina da parte del governo. Solo con le elezioni del ’46 le donne ebbero per la prima volta l’occasione di votare.
Ma la Seconda Guerra Mondiale tornò a richiedere un più ampio ruolo della donna, essendo gli uomini tornati sul fronte. Le donne, quindi, si trovarono ancora a prendere il posto degli uomini e, dunque, ancora una volta, erano sempre più intenzionate a proseguire il percorso di emancipazione. Anche attraverso il lavoro, in una società patriarcale in cui era l’uomo a dover lavorare. Una volontà che le portò a scontrarsi anche con altre categorie sociali che, finita la guerra, reclamavano il proprio posto nella società: i reduci.
Lo abbiamo già visto, nel corso di questa rubrica, parlando proprio della questione dei soldati tornati dal fronte e di come questi chiedessero il conto dei loro sacrifici, chiedessero di riavere quel posto nella società che la guerra aveva loro strappato, costringendoli ad affrontare la morte sui campi di battaglia.
Riuniti anche in movimenti e in un partito (il Partito del Reduce Italiano) chiedevano lavoro in un paese dove il lavoro mancava e chiedevano che le aziende sostituissero la manodopera femminile, per dar posto a loro. Giungendo a manifestare contro le aziende che non avevano sostituito la manodopera femminile, come successe a Bari il 10 gennaio ’46, davanti alla Manifattura dei Tabacchi, alla Posta Centrale, al Consorzio Agrario e alla Società Generale Pugliese di Elettricità.
Contro l’occupazione femminile la pressione era forte, nonostante, a sua difesa spesso si posero i sindacati. Il sindacalista Giuseppe Di Vittorio, ad esempio, prese pubblicamente posizione a favore del diritto delle donne di lavorare.
Ma le donne non avevano intenzione di indietreggiare nel processo per l’emancipazione. Fu così che, tra gli anni ’60 e gli anni ’70, in coincidenza con le proteste del ’68, la secolarizzazione della società e l’emergere di nuove istanze nell’agenda politica, la protesta femminista tornò ad esplodere e si ebbe, quindi, la già citata seconda ondata femminista. Ondata che, già durante gli anni ’50, portò a grandi conquiste per le donne, a partire dall’abolizione della regolamentazione della prostituzione, con la legge 75/58 (meglio nota come legge Merlin, dal nome della prima firmataria, la socialista Lina Merlin) che, facendo seguito alle tante lettere di denuncia inviate dalle tante ragazze che vi lavoravano, chiudeva le cosiddette “case chiuse” o “case di tolleranza”. Un’altra conquista fu la possibilità, prima del ’60 negata, di accedere ai concorsi pubblici.
Ma più impegnativo banco di prova del femminismo italiano fu la battaglia per il diritto al divorzio, che portò all’istituzione della legge sul divorzio Fortuna Baslini, nel ’70. Una legge che pone fine agli effetti civili del matrimonio e che appoggiata da comunisti, radicali, socialisti e da parte del mondo cattolico che aveva abbracciato le ragioni delle contestazioni di quegli anni. Fu avversata, invece, dal resto dei cattolici e dalla destra. Fu il tentativo cattolico di abrogarla che portò al referendum del ’74 che, per i suoi promotori, fu un fallimento. Il “no” vinse e la legge rimase nell’ordinamento italiano, dove è ancora oggi.
Contro il diritto all’interruzione del rapporto coniugale forti erano le resistenze. Il divorzio era visto come un attacco alla famiglia e al suo ruolo cardine nella società italiana. Proprio per ottenere la possibilità di interrompere il matrimonio, nel ’66, si costituì la Lega Italiana per l’Istituzione del Divorzio (Lid). Un’associazione che fu attiva anche a Bitonto, dove, in piazza Margherita, proiettò “Diario di un no”, un’inchiesta cinematografica realizzata nel ‘74 da Gianni Serra e prodotta dalla Sezione stampa e propaganda del Pci, in occasione della campagna referendaria sul divorzio.
Dopo la vittoria del fronte del “no” altre conquiste del femminismo italiano furono la depenalizzazione dell’adulterio, il diritto all’interruzione di gravidanza, l’eliminazione della legge che, in caso di “delitto d’onore”, mitigava la pena per omicidio.