Quel mattino di settembre, il cielo su Bari era screziato di terribilità. Le truppe della Wehrmacht stavano mettendo a ferro e fuoco la città. Il porto, le strade principali, i luoghi del potere: tutti era nel mirino spietato dei soldati tedeschi. In ogni angolo, riecheggiavano boati tremendi. Bombe, proiettili, violenza ovunque, tranne che in quel palazzo che svettava imperioso ad un tiro di schioppo dall’Ateneo.
Era la sede delle Poste e del telegrafo, che in breve tempo si era trasformato in un avamposto della Resistenza meridionale. Capo di quell’ufficio era Pietro Stallone, patriota e sindacalista di origini bitontine. Memore della fierezza imparata dal padre contadino e dalla dura vita di trincea nella Prima Guerra Mondiale, dove, novello Mercurio in divisa, aveva anche compreso l’importanza delle comunicazioni, specie quelle di natura bellica. Così, quasi con una “orazion picciola” di dantesca memoria, mise insieme colleghi antifascisti, militari ormai sbandati, all’indomani dell’armistizio firmato da Badoglio, e persino militi ancora in orbace, ma ardenti d’amore per l’italico suolo, ed eresse un muro invalicabile dinanzi al duro attacco dei nazisti. Il comandante della milizia postelegrafonica, Morabito, si dileguò e toccò a quegli impavidi eroi imbracciare i fucili e sparare dalle finestre contro i tedeschi che si avvicinavano minacciosi.
L’atto eroico, comunque, non risparmiò loro la causa intenta contro dagli addetti ai reparti speciali di revisione e censura della corrispondenza postale. Liberata l’Italia, il Cavaliere di Vittorio Veneto e poi della Repubblica fu un dirigente sindacale di gran vaglia della CGIL, da segretario dell’onorevole Giuseppe Di Vittorio spinse affinché fosse approvata la pensione sociale e s’impegnò perché fosse estesa pure ai lavoratori in quiescenza la sanità mutualistica. E numerose furono le iniziative riguardanti stipendi e prestiti che intraprese da consigliere dell’Enpas. Insomma, l’ex sottotenente e genio telegrafista, che fu anche giornalista, si batté sempre per la realizzazione di concrete riforme sociali. Ed è per questo che stupisce – noi, ma soprattutto il di lui figlio Giuseppe Michele, altro personaggio di pregio eccelso – il fatto che la città di Bitonto (come, invece, hanno già fatto Roma e Bari) non abbia ancora dedicato una via ad un nostro concittadino che si rese protagonista di un capitolo lucente della Storia del nostro Paese