La storia che vi stiamo per raccontare parte il 13 novembre 1999. In quella fredda mattina di fine autunno, tre sorelline di etnia rom, come ogni giorno, si recano all’incrocio sull’ex statale 98 (ora Sp231) all’incrocio della provinciale – che, all’epoca dei fatti, da una parte conduceva verso Bitonto, dall’altra a Palo del Colle – per chiedere l’elemosina. Le bimbe quel giorno non sono state accompagnate dai genitori, ma sono andate lì da sole. Dopo aver mangiato un panino, due si allontanano per andare in bagno dietro un muretto a secco: al loro ritorno Maria Mirabela Rafailà, la sorellina più piccola, era scomparsa.
La denuncia e le perlustrazioni della zona. I genitori si recano subito al Commissariato di Pubblica Sicurezza di Bitonto per denunciare la scomparsa della loro figlia più piccola. Le ricerche partirono subito. La denuncia arriva in Procura la mattina successiva: dopo 24ore non c’è ancora nessuna traccia della piccola di appena 7 anni.
Le indagini vengono svolte dalla squadra di Polizia Giudiziaria della Polizia di Stato – guidata dal vicequestore agg. dott. Maurizio Uva -, dalla Squadra Mobile, sotto il coordinamento del Pubblico Ministero Gianrico Carofiglio, ma parte essenziale l’hanno anche gli agenti della Polizia Municipale che conoscono molto bene la zona.
Arrivano anche i Carabinieri di Modugno che “per due giorni battono la zona con i cani, che fiutano l’odore della bambina solo nelle immediate vicinanze dell’incrocio; ciò significa che Maria Mirabela, da quell’incrocio non si è allontanata a piedi. La prima ipotesi investigativa è quella della pedofilia ed è nelle abitazioni di personaggi con quel tipo di precedenti che vengono effettuate, senza nessun risultato, le prime perquisizioni”, scriverà Carofiglio.
Le intercettazioni e le prime ipotesi. Sono centinaia i soggetti che vengono presi in considerazione, in contemporanea vengono messi sotto controllo i numeri di telefono dei genitori di Mirabela, il 36enne Gheorghe e la 34enne Ileana Rafailà. In polizia arriva una prima interprete, una signora rumena, M. S., che però non riuscirà sola a comprendere un idioma misto, a cavallo fra lingua rumena e lingua rom. Le viene affiancata una seconda persona, l’ispettrice A. D’A., in servizio alla questura di Bologna. Durante le conversazioni, la bambina risulta che sia viva, è stata venduta ad un’altra tribù nomade, che i genitori ne sono consapevoli e si preoccupano di depistare le indagini in corso. In quei giorni, la storica trasmissione “Chi l’ha visto?” comincia ad occuparsi del caso e le segnalazioni si moltiplicano: tutti credono d’aver visto Mirabela al Nord Italia. Ma le ricerche si estendono anche nel foggiano, sia nel campo di via San Severo, alla periferia del capoluogo dauno, che in via Castelnuovo, a San Severo. Nessun elemento è utile ai fini delle indagini. Il 9 dicembre Gheorghe chiama l’ispettore responsabile della squadra di polizia giudiziaria di Bitonto e comunica di aver trovato casualmente, a qualche centinaio di metri dall’incrocio della scomparsa, uno scarponcino della sua bambina. L’agente si precipita sul posto: lo scarponcino è asciutto, collocato su un campo che era stato battuto a lungo, ma senza successo dai cinofili. Tutto lascia presupporre che la scarpa sia stata collocata in un momento successivo, in un tentativo grossolano di inquinare le indagini. Nel frattempo, sempre in quei giorni, gli inquirenti rintracciano Marius, un rumeno residente a Bitonto, che racconta al Pm e poliziotti che il padre di Mirabela nelle settimane precedenti gli aveva confessato una preoccupazione per un debito di circa 10 milioni contratto da pericolosi connazionali, probabilmente dal capo tribù. Un debito che avrebbe riguardato l’arrivo in Italia della madre e proprio della piccola Mirabela, appena qualche mese prima della sua scomparsa.
Gli arresti e le scarcerazioni. Il 17 dicembre 1999, invece, i genitori e Marin Bambaloi, portavoce della comunità rom rumena di Bari, vengono arrestati con l’accusa d’aver venduto la bimba ad una banda di rom. Gli altri figli, la 16enne Dorina, la 14enne Liliana, Maria di 10 anni e Ghorghe di 9, finiscono invece ai Santi Medici, dalle suore. Senza i bimbi e sotto il periodo natalizio, gli investigatori si aspettano che i tre, una volta messi davanti alle prove raccolte, possano collaborare per liberare la bambina. Ma i tre negano, contestano le traduzioni delle intercettazioni: le due interpreti hanno letteralmente scambiato un intercalare (‘Anik’, che significa ‘certamente’) per il nomignolo della bambina e ‘Tup Shala’ per ‘tagliare i capelli’ (in realtà, significa ‘tuo fratello’). In realtà, il sedicente zio della bambina, Marin Bambaloi, ha sì parlato della bambina ai genitori, ma per far sì che con tutta questa tragedia i genitori potessero “almeno” chiedere un appartamento popolare al Comune, così da risolvere la loro situazione precaria. Questo lo verremo a sapere – parlando con alcuni inquirenti – solo qualche settimana fa. Resta l’accusa di abbandono di minore e per aver costretto le tre figlie a chiedere l’elemosina, ma genitori e zio, seguiti dall’avvocato Antonello Contaldi, vengono scarcerati. L’indagine è di nuovo a zero.
Le due interpreti. Le due interpreti, intanto, continuano a lavorare senza sosta e i telefoni ad essere utilizzati da altri membri della comunità rom per trattare (a quanto riferiscono) affari illeciti tanto colossali, quanto imprecisati. Comincia, però, a passare molto tempo – compresa buona parte della notte in sala intercettazioni – “apparendo sempre più stanche, confuse e strane”, scrive sempre Carofiglio. Una mattina – dopo diverse settimane dagli arresti – si presentano al Pm e, in “evidente stato confusionale comunicano che dalle ultime telefonate emergerebbe un complotto internazionale di vaste proporzioni del quale farebbero parte anche alcuni poliziotti che, fino a quel momento, hanno seguito l’attività d’indagine, oltre ad imprecisati membri dei servizi segreti”. La mattina seguente vengono esonerate dall’incarico e vengono indagate e condannate in primo grado per calunnia aggravata e continuata, oltre al risarcimento dei danni morali e materiali patiti dai quattro poliziotti della sezione di Pg della Procura, che si costituiscono parte civile assistiti dall’avvocato Alessandro Dello Russo.
Il ritrovamento del corpo. Trascorrono quattro mesi e mezzo e il 30 marzo un pastore, alle 12.30 del mattino, mentre porta le mucche al pascolo, nota l’atteggiamento strano di una delle sue bestie. Si avvicina ad un mobiletto, annusa una piccola brandina ripiegata ed è qui che avviene il macabro ritrovamento. Siamo a poco più di 200 metri, in diagonale, da dove Maria Mirabela era scomparsa e il suo corpicino si rivela mummificato all’interno del piccolo lettino. Il mobile-letto è posizionato con il fianco destro posato sul terreno coltivato a foraggio, con il pannello frontale che poggia sulla parete a secco, con l’apertura rivolta verso via Antica del Petto e la base rivolta verso la biforcazione della strada sterrata. Al momento del ritrovamento, il mobile risulta privo del pannello posto a copertura del fianco sinistro e con il pannello d’apertura danneggiato per sfondamento e semiaccartocciato su se stesso. Nell’intercapedine della branda, viene ritrovato il corpo esanime di Maria Mirabela: sul collo è posizionata una pietra, un macigno, che poggia anche sulla spalla. Il corpo giace sul fianco sinistro, sul pannello del mobile che poggia sul terreno: il capo è rivolto verso l’apertura del mobile e i piedi rivolti verso la base. Le unghie delle mani sono dipinte di rosso: un arto è flesso verso il tronco del corpo, l’altro piegato all’insù con le dita flesse. Sul corpo non sono mai risultate lesioni di alcun genere, tranne alcuni fori al ventre provocati dalla nidificazione della fauna cadaverica. La bambina indossa gli stessi abiti del giorno della sua scomparsa: una tuta con i pantaloni e solo una scarpa da sci, al piede destro, di color celeste, la maglia, invece, è nera con le spalle bianche e le maniche rosse a bande nere. Tra i capelli è intrecciato un foulard a fantasia. Nelle immediate vicinanze vengono rivenuti anche tre pezzi di spugna, di varia forma, facenti parte di un unico materasso: le tre parti, affiancate, combaciano formando un materasso ad una piazza.
Le altre piste. I poliziotti controllano i fascicoli di tutti i soggetti della provincia con precedenti per reati a sfondo sessuale e con l’aiuto degli esperti dell’Unità di Indagine sul Crimine Violento della Polizia viene stilato un profilo psicologico del maniaco omicida. Si cerca nella vita di un ragazzo albanese appena 18enne: questi è dipendente dell’allevatore che ha trovato il corpo della bambina e risiede all’interno di una roulotte posizionata poco distante dal luogo del rinvenimento del cadavere della bambina. Ma nella dimora “mobile” del giovane, ispezionata dalla scientifica in lungo e largo, non vien trovato nulla. Altra pista è quella che conduce ai marocchini che vendono fazzoletti all’angolo della strada dove erano sempre le ragazze: vengono interrogati tutti e cinque, ma nessuno si è accorto della sparizione della bambina e tutti hanno precisi alibi.
In soldoni. La bambina era da qualche mese in Italia, parlava poco l’italiano, ma risultava molto simpatica agli automobilisti: forse era stata prelevata da qualcuno che la conosceva. Oppure si era fidata.
L’insospettabile dottore. Passano settimane ricche di falsi allarmi fino al pomeriggio del 23 maggio 2000. Un vigile urbano di Bitonto, che ha preso particolarmente a cuore il caso della piccola Mirabela, tutti i giorni, durante il suo turno di servizio, torna sul luogo del ritrovamento del corpo: molto spesso i maniaci tornano sul luogo del crimine, per rivivere la sensazione di potenza legata allo stupro e all’uccisione. Dove oggi sorge la Piscina Comunale, a pochi passi di lì (sull’ex statale 98 al km 74), in una Rover 200 scopre un uomo solo, con i pantaloni calati, intento a masturbarsi, leggermente sdraiato mentre inforca lo sterzo con le gambe flesse, facendo leva con le ginocchia sul cruscotto. Il vigile chiama i rinforzi, arrivano altri tre colleghi e procedono al controllo: l’uomo si irrigidisce, oppone resistenza, non vuole nemmeno fornire le proprie generalità. Ma lo rivestono e lo portano in commissariato, allora sito in piazza Marconi. Il soggetto allora 62enne corrisponde quasi perfettamente al profilo psicologico elaborato nelle settimane precedenti: non si era mai sposato, aveva abitato buona parte della vita con una madre anziana, esercitava una professione sanitaria, aveva un equilibrio mentale precario, trascorreva buona parte del suo tempo girando in auto, senza meta, per le strade della provincia. A suo carico, però, c’erano solo congetture, una denuncia per atti osceni in luogo pubblico e resistenza a pubblico ufficiale. Il Pm, dopo averlo interrogato per tutta la notte, alle 4 del mattino assieme ai poliziotti decide di perquisirgli la casa.
Una volta giunti nella città di origine dell’uomo, in una città a 35 km da Bitonto, i poliziotti entrano all’interno della palazzina di sua proprietà. In un piano, la casa è pulitissima, ordinata, le porte chiuse a chiave. Quando stanno per andare via, un ispettore si accorge che in bagno mancava lo spazzolino: quell’uomo non abita lì, intuisce. Ma in un altro appartamento a pian terreno. La sua vera abitazione. I poliziotti la ricordano ancora come la casa degli orrori: un tanfo incredibile, oggetti di ogni tipo sparsi in disordine, libri di esoterismo e magia nera, camicie perfettamente stirate appese sulle grucce ad un filo che andava da parte a parte nella stanza. Nel soggiorno, in cucina, nella stanza da letto ci sono persino secchi pieni di urina. La vita del medico, in servizio in un noto ospedale della provincia, viene passata a setaccio, i colleghi si dicono scioccati. Vengono acquisiti i tabulati telefonici, viene intercettato, pedinato, partono le indagini patrimoniali. Ma nulla, non un solo elemento che lo colleghi alla tragica morte di Mirabela.
L’epilogo (?). Le indagini sulla vicenda della piccola Mirabela sono state chiuse definitivamente nel gennaio 2003. Nel richiedere l’archiviazione al Gip del Tribunale di Bari, Giuseppe De Benedictis, il Pm Gianrico Carofiglio scrisse che l’inchiesta era stata compromessa “irrimediabilmente” da un “concorso di fattori negativi: fra i quali spiccano gli errori di traduzione” dal romeno compiuti dalle due interpreti e il “fallimento delle ricerche con le unità cinofile” che furono impiegate nelle ricerche e che “perlustrarono i luoghi in cui la piccola scomparve”. Dopo qualche tempo si seppe, infatti, che i cani utilizzati erano addestrati per cercare persone vive e non cadaveri. Non a caso, il corpo in avanzato stato di decomposizione fu ritrovato da alcune mucche al pascolo. Probabilmente, quindi, la bimba di lì in quei mesi non fu mai spostata. Tra le ipotesi ci fu anche quella dell’avvocato Andrea Emilio Falcetta, che, nel corso di una conferenza stampa – il legale che non ha mai seguito il procedimento relativo alla morte della bambina -, disse che aveva saputo da una “fonte istituzionale estremamente attendibile”, che era pronto a “rivelare al Pm” che alla bambina fossero “stati espiantati reni e cornee”. Informazione mai confermata dal medico legale, Francesco Introna, che anzi, ci ha riferito che, probabilmente, la piccola sia morta per soffocamento o strangolamento. Nessuna conferma, su eventuali segni di violenza: “Il corpo, durante l’esame necrologico, era troppo deteriorato – ha osservato il medico -, mostrava solo piccoli brandelli di pelle attaccata alle ossa, per determinare se ci fosse stata della violenza sessuale o se ci fossero tracce di liquido seminale”. La bambina, quindi, sarebbe stata uccisa nelle ore immediatamente successive alla scomparsa: “per determinarlo, decisivi i residui di digestione all’interno dello stomaco”, ha concluso Introna.
Ma per Carofiglio… In un’intervista del 4 marzo 2018 rilasciata dal Pm sul Corriere della Sera al collega Aldo Cazzullo, si legge a chiare lettere che si era sempre portato dietro un senso “terribile di frustrazione per questo caso” e che, dopo tanti anni, è ancora convinto che il colpevole dell’omicidio fosse il medico. “Lo interrogai per tutta la notte. Ci fu un momento in cui mi dissi: forse sto parlando troppo con lui. Credo che avesse abusato di altre bambine. Andò a giudizio per atti osceni, ma non riuscimmo ad incastrarlo per omicidio. Sono tuttora convinto che il colpevole fosse lui”.