“Si
dà fuoco per una delusione d’amore”.
Più o meno è questa l’espressione con cui
alcuni organi di stampa liquidano l’ennesima tragedia, frutto della
disperazione e della fragilità umana.
Perché tanta leggerezza, tanta superficialità
e approssimazione nel raccontare la storia di chi ha deciso di porre la parola
fine ad una vita, quasi sicuramente, giudicata senza senso, pertanto non degna
di essere vissuta?
Perché concentrarsi, per poi fermarsi, sulla punta dell’iceberg e non scandagliare
un po’ tutta la piramide, tanto per rendere giustizia ad una creatura il cui
gesto dovrebbe farci riflettere più che borbottare?
La risposta credo sia
evidente: la notizia, non certo raccontata nella sua nuda verità, quella
generalmente non importa a nessuno, tanto meno al cronista, come il lettore vorrebbe che sia accaduta.
Amore
e morte è un binomio che affascina, che accattiva, che soddisfa il sadismo di
alcuni e la perversione di altri, che dà libero sfogo alla fantasia di chiunque
voglia appagare la sua mente ammalorata, invece di cogliere uno spunto per una
seria riflessione sul nostro modo di essere, di relazionare, di vivere.
E lo
spunto per un tale atteggiamento critico credo debba venire proprio dal modo
con cui si porge una notizia.
E invece…
Vito
è stato uno di noi, con i suoi limiti, le sue angosce, le sue paure, le sue
insicurezze, le sue pene, la sua sofferenza, ma anche le sue gioie, le sue
certezze, le sue speranze, la sua voglia di amare e di essere amato, i suoi
sogni.
Un cuore, un’anima, uno spirito, una mente, come tutti.
Ma perché tanto
disprezzo per la sua vita, tanto accanimento per quel “tempio” che un giorno
una dolce figura di donna ha messo al mondo nella segreta speranza che
germogliasse come il più bel fiore del creato e che fosse destinato ad
abbellire una parte dello stesso?
Sono certo che in tanti attribuirebbero la
causa alla sua fragilità, alla sua debolezza, ad un momento di follia, di black
out di una mente ormai offuscata, stritolata dalle numerose avversità della
vita.
Qualcun altro parlerebbe di destino avverso, di un fato così ingeneroso
nei suoi confronti, di istituzioni che non aiutano. Discorsi generici, tanto
per attribuire a qualcuno, diverso da sé, la responsabilità di ciò che è
accaduto.
In verità, credo che si possa accettare tutto, un po’ di questo e un
po’ di quello, ma, se vogliamo essere onesti con noi stessi prima e con il
nostro prossimo poi, è doveroso attribuirsi una parte, foss’anche marginale, di
responsabilità per quel gesto così determinato e nel contempo così estremo.
Sì,
è vero, tanti non lo hanno mai conosciuto.
Ma tanti altri sì.
Hanno ascoltato
la sua sofferenza, hanno toccato con mano il suo dolore e cosa hanno fatto per
lui?
Solo era e da solo ha continuato a lottare, a remare contro corrente per
tentare di guadagnare la meta, di dare una svolta diversa alla sua vita sino ad
allora così avara di gioie e nel contempo così prolifica di irte salite
lastricate di rovi spinosi.
Quasi certamente non avrà supplicato, ma chiesto
sì, con i modi di cui era capace, con la dignità di un essere che chiede ma non
mendica, un bene a cui tutti tendiamo e che tutti ci meritiamo: un po’ di
felicità.
Attraverso un lavoro che dà nobiltà e dignità ad un essere umano;
attraverso un briciolo d’amore che dà la carica necessaria a chicchessia per
affrontare quelle corse ad ostacoli a cui non di rado siamo sottoposti lungo il
nostro viaggio; attraverso una relazione di qualcuno che lo affiancasse, lo
sostenesse, lo confortasse, gli regalasse ogni tanto un sorriso, una parola di
speranza.
L’epilogo della vicenda parla da solo: nulla di tutto questo è
accaduto, nessuno gli ha teso concretamente una mano. Ancora una volta
l’egoismo ha trionfato, immolando sul suo altare l’ennesima vittima.
Quante
persone nella stessa identica situazione di Vito abbiamo conosciuto nel corso
della nostra vita e conosciamo tuttora?
E cosa abbiamo fatto per loro o
facciamo per loro?
Ognuno di noi provi a darsi una risposta, a dialogare con la
propria coscienza, tanto non ci ascolta e vede nessuno, e traiamo da soli le
conclusioni.
La forza, il coraggio per continuare lungo la nostra strada, non
sempre facile da percorrere, sta nell’amore o meglio nella Carità, in quelle
mani tese verso l’altro, in quegli sguardi fissi verso il proprio fratello,
nell’annullare se stessi per l’altro.
Contrariamente la vita sarà sempre un
inferno e i più gracili, i meno intraprendenti, i meno coraggiosi, se lasciati
soli sono destinati all’autodistruzione. Ed allora non possiamo più dire “non è
colpa mia”.
Ora
che la pace è ritornata nella sua vita non ci resta che chiedere perdono a Vito
per non averlo ascoltato, per non averlo compreso, per non avergli teso le
nostre mani, per ciò che poteva essere nelle nostre possibilità…