Secondo dopoguerra. L’Italia è alle prese con la ricostruzione, ma gli equilibri politici e sociali sono ancora fragili. Già nel ’43, con l’arrivo degli alleati e la cacciata del regime fascista, spesso si ebbero scontri quando si dovettero sostituire le amministrazioni locali fasciste con quelle guidate da esponenti del Comitato di Liberazione Nazionale. Ma anche negli anni successivi la situazione rimase incandescente.
Nel Nord Italia proseguiva la lunga scia di sanguinose vendette, spesso da parte dei comunisti, verso ex aderenti alla Repubblica di Salò, o anche presunti fascisti o persone giudicate nemiche di classe. Perirono anche persone che avevano partecipato alla lotta antifascista da fronti diversi, cattolici in primis.
A Napoli ci furono scontri tra monarchici e repubblicani, che l’11 giugno del ’46, culminarono nella strage di via Medina, dove i monarchici tentarono di assaltare la sede del Partito Comunista, ma furono bloccati dalla polizia. Nove militanti pro-monarchia morirono.
Ma, soprattutto al Sud, la guerra più dura da combattere è contro la miseria. Gli strati più poveri della popolazione, soprattutto braccianti agricoli, ultima ruota del carro sociale, chiedono migliori condizioni di vita a proprietari terrieri troppo spesso sordi e allo stato italiano. Chiedono pane, lavoro e dignità, in un territorio come quello di Puglia e Basilicata che conta oltre 150mila braccianti disoccupati.
Le rivendicazioni sono raccolte da comunisti, socialisti e dai sindacati che chiedono il rispetto dei contratti stipulati e il riconoscimento del limite di otto ore al giorno. Sindacalisti come Di Vittorio si battono per i braccianti. Ma spesso le manifestazioni si trasformano in rivolte, anche violente, che trovano impreparati il governo e le forze dell’ordine che, non riuscendo a gestire la situazione, intervengono talvolta con le armi.
Succede in tutta Italia. Soprattutto al Sud, dove l’agricoltura ricopre un importantissimo ruolo economico e sociale, prima che l’industrializzazione svuoti le campagne. Anche in Puglia si registrano disordini che portano anche vittime sia tra i dimostranti che tra le forze dell’ordine.
A Bitonto non c’erano state violenze al momento della destituzione dell’ultimo podestà fascista Giovanni Battista Dragone. Molti personaggi legati al vecchio regime si erano allontanati. È, invece, il ’47 l’anno caldo, con violente insurrezioni e scontri armati contro polizia e carabinieri. C’è chi parlò addirittura di tentativo di “repubblica rossa”, tipo quella che il 6 maggio ’45 era stata dichiarata a Caulonia, Reggio Calabria, o l’insurrezione del giugno dello stesso anno a Minervino, dove dopo l’arresto di alcuni cittadini per furto e renitenza alla leva, era scoppiata una rivolta cittadina con trincee, armi e mitragliatrici piazzate nei punti nevralgici del paese.
È il 19 novembre, periodo della raccolta delle olive, principale risorsa economica. La situazione è incandescente da mesi. Il 18 settembre la polizia aveva aperto il fuoco su lavoratori in sciopero ferendo numerose persone. I braccianti, sostenuti da Pci, Psi e dalla Cgil, che aveva dichiarato lo sciopero ad oltranza in tutto il barese, chiedono lavoro e condizioni di vita più dignitose. Ma tra le parti si fatica ad avviare un dialogo.
Durante un comizio del segretario socialista cittadino Angelo Custode Masciale la notizia di spari in un frantoio scatena il caos. A darne testimonianza è uno scritto di Domenico Saracino, sindaco dal ’62 al ’66, pubblicato nel dicembre 2012 dal “da Bitonto”. L’Unità, giornale vicino ai manifestanti, riporta di bombe a mano e colpi di fucile contro i lavoratori, da parte degli agrari, nei pressi del palazzo comunale, dove si tengono trattative tra le parti. E parla di «provocatoria dimostrazione della polizia». “Giù le mani dai lavoratori di Puglia! Giustizia per i contadini affamati!” titola il giornale comunista il 21 novembre ‘47.
Nonostante gli appelli alla calma di Custode Masciale, i manifestanti, circa 3mila, si dividono in più gruppi, lanciando invettive contro i padroni, i latifondisti, e contro le forze politiche a loro vicine, le “sedi della reazione agraria” come la DC, la cui sede in piazza Cavour è assaltata. Tutti gli arredi interni vengono ammucchiati sulla piazza e incendiati. Sorte simile subiscono il Circolo Unione in piazza Margherita di Savoia (oggi piazza Aldo Moro) e la sede del Movimento Dell’Uomo Qualunque, in via de Ilderis, colpita da bombe. Un gruppo di manifestanti occupa la società telefonica, impedendo le comunicazioni tra il commissariato di Polizia di Bitonto e Bari. Altri arrivano a Porta La Maya, bloccando a colpi di fucile la Polizia giunta da Bari dopo l’interruzione delle comunicazioni. Un ordigno ferisce don Pasquale Dileo, cappellano della chiesa del Carmine, mentre, alle 5 del mattino del giorno successivo, si reca a dare la comunione ad un moribondo. Spesso, infatti, la Chiesa è accusata di essere più vicina ai latifondisti che ai poveri contadini.
La situazione va avanti sino al giorno dopo, quando a sedare la rivolta intervennero le camionette dei Carabinieri, piazzando mitragliatrici lungo corso Vittorio Emanuele II. Oltre cento militari furono inviati, come riporta La Stampa il 22-23 novembre 47 raccontando i disordini e ponendo l’accento più sull’ordine pubblico che sulle ragioni degli insorti. Bilancio dei disordini è di “qualche ferito non grave” (L’unità). I presunti organizzatori vengono arrestati.
Ma le proteste in Puglia sono destinate a durare ancora per anni. Dopo pochi giorni, nuove insurrezioni ci furono anche a Gravina.
Testimone di quegli eventi fu Emanuele Coviello, reduce dalla guerra e dalla prigionia nei campi tedeschi, conosciuto a febbraio, quando, durante la rassegna Memento, raccontò la sua esperienza. Qui di seguito riporto alcuni passi dell’intervista fatta nel maggio scorso, quando mi raccontò il suo ricordo degli eventi del 19 e 20 novembre ’47.
Lui, come suo padre, erano iscritti all’epoca al Partito Comunista: «Come tutti i lavoratori dell’epoca. Il 90 percento era iscritto».
«Si moriva di fame, come del resto già prima della guerra – racconta – Stavamo male. Ci davano quattro soldi. Ci mettevano in condizioni di miseria. Era necessario ribellarsi. Eravamo anche andati in guerra per difendere la patria dei ricchi, non quella dei poveri».
Nell’intervista Coviello riferisce anche che il Movimento dell’Uomo Qualunque (che sarà tra le prime manifestazioni di antipolitica nell’Italia repubblicana) era formato da ex fascisti. Parlando dell’arresto del padre, nonostante non avesse partecipato alle rivolte dice: «Io rimasi in corso Vittorio Emanuele II, solo di guardia alla sezione del partito, e mio padre era a casa, nel suo letto. Non partecipò per niente alla sommossa. Ciò nonostante fu arrestato con l’accusa di avervi preso parte».
A fare il nome del genitore fu un esponente del Movimento dell’Uomo Qualunque, ex fascista, con cui c’erano stati dissidi legati alla retribuzione del lavoro in campagna: «Furono loro, gli ex fascisti andati nell’Uomo Qualunque, a fare i nomi di quelli da arrestare come responsabili delle sommosse. Ben pochi, invece, tra i veri responsabili, furono presi».
Fu in queste condizioni di forti conflitti sociali che nacque l’Italia repubblicana. E, se quegli scontri non degenerarono ulteriormente, sicuramente fu per merito della ripresa economica che, per quasi un trentennio (detto appunto “trentennio glorioso”) si ebbe in tutta Europa e in Italia, fino alla crisi petrolifera del 1973. Sicuramente fu anche per merito degli aiuti del Piano Marshall, che aiutarono le fragili democrazie europee ad allentare le politiche di austerità, migliorando le condizioni di vita della popolazione.
Ma, forse, fu anche merito delle forze politiche che, in un Italia in cui le ferite della guerra erano ancora ben visibili, hanno saputo, nonostante gli odi reciproci che spesso affioravano, purtroppo anche violentemente, accompagnare l’Italia verso la ripresa, portando le istanze del proprio elettorato di riferimento in Parlamento e, nelle città, nel consiglio comunale.