Il 2 giugno del 1946, gli italiani furono chiamati a fare una scelta che avrebbe cambiato le sorti del Paese. Furono chiamati a scegliere se continuare a vivere in una monarchia costituzionale guidata dalla famiglia Savoia o svoltare pagina e istituire un nuovo ordinamento repubblicano parlamentare.
Conosciamo tutti l’esito del referendum istituzionale del ’46. La gran parte degli italiani, il 54%, si espresse per la repubblica (almeno ufficialmente dato che c’è chi avanza ipotesi, mai dimostrate, di brogli), contro il 46% raggiunto dai sostenitori della corona sabauda. A votare andò l’89% della popolazione avente diritto.
Ma come votarono in quell’occasione i bitontini?
Confermando la grandissima affluenza nazionale, a votare si recarono in 16612, il 91% dei cittadini, segno di una voglia, da parte di tutti, di tornare a decidere, ad influire sulle sorti dell’Italia, dopo venti anni di dittatura e una guerra disastrosa che aveva lasciato morti e macerie.
A Bitonto prevalsero i monarchici che con 10095 preferenze raggiunsero il 60,77%, mentre la repubblica ottenne 6517 voti, il 39,23%. Quasi dappertutto, in Puglia, la monarchia vinse. La repubblica raccolse più preferenze in alcune zone dell’alta Murgia barese, dell’Appennino Dauno, nelle aree latifondiste di Andria e Cerignola, ossia nelle aree più povere dove forte era la presenza di braccianti agricoli. Fu Minervino il comune più repubblicano, seguito, in provincia di Bari, da Spinazzola, Gravina, Andria, Canosa, Santeramo, come ricorda Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto Pugliese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea (IPSAIC), nel volume “La Puglia al voto”.
Ma il 2 giugno ’46 gli italiani non decisero solo che ordinamento dare all’Italia post-fascista. Quel giorno si votò anche per decidere a chi affidare il grande impegno della stesura della carta costituzionale, che avrebbe regolato il nuovo stato, per formare l’assemblea costituente che, ricordiamo, annoverò tra le sue fila anche il concittadino Italo Giulio Caiati (Democrazia Cristiana).
E fu proprio la Dc che, quel giorno, raggiunse a Bitonto il miglior risultato, con 5749 voti, seguita dal Psiup (2916), dal Pc italiano (2158) e dal Fronte dell’Uomo Qualunque, prima formazione antipolitica dell’Italia repubblicana (ne parleremo più in avanti), che ottenne 1894 preferenze. Votò in quell’occasione il 93,3% dei bitontini, un dato che comprendeva anche le donne. Dal ’46, infatti, il diritto di voto fu esteso anche a loro. Le prime elezioni in cui il gentil sesso ebbe diritto di voto furono le amministrative che si tennero due mesi prima, il 7 aprile 1946, votarono in 18.289, l’88,6%, e vinse la Dc, che nominò sindaco Nicola Calamita, sostituendo il comunista Arcangelo Pastoressa, primo cittadino dal ’45.
Dal voto del 2 giugno ’46 nacque quindi quella repubblica retta da un sistema parlamentare bicamerale perfetto, in cui perno della politica erano i partiti politici, formati dalle forze che avevano combattuto il fascismo. Furono riconosciuti, come ho già anticipato nel precedente appuntamento, nel testo costituzionale all’articolo 49, che ne afferma il ruolo senza minimamente disciplinare, volutamente, l’ordinamento interno: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
La stessa Costituzione, tuttavia, per determinare un migliore equilibrio di poteri, limitare il potere dei partiti e per lasciare al singolo parlamentare il diritto di dissentire, all’articolo 67 vieta il mandato imperativo e dice: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».
Il parlamentare in disaccordo con il proprio partito può, dunque, votare come ritiene più opportuno. Ovviamente il partito può espellerlo, ma non può impedire che continui a svolgere il suo incarico anche al di fuori di esso.