Ho
sempre pensato che tutti i viaggi dovrebbero cominciare per mare.
Tutti i viaggi dovrebbero avere la loro benedizione dal mare.
Il grande blu che ti avvolge come una coperta, come un’amante che si rende
complice di tutti i buoni e i cattivi propositi, di tutti i pensieri di fuga;
che scalpita sotto lo scafo spingendoti come una mamma quando spinge per la
prima volta suo figlio sulla bicicletta.
Il mare è così: ti protegge, fa in modo che tu ti senta sicuro, coccolato,
confortato e poi ti spinge via dandoti lo slancio.
Come il proiettile
di una fionda l’attimo prima in cui sta per essere scagliato.
E tutti i pensieri
negativi, le incertezze, le preoccupazioni te le lasci dietro.
Stanotte il mare ha
fatto questo.
È come se avesse
dato quella spinta definitiva al viaggio.
Dopo non sei più lo stesso.
Dopo impari a
portarla da solo quella bici, o cadi.
E allora c’è
l’ebbrezza, c’è la paura di cominciare qualcosa, ma ormai le paure, le
incertezze te le sei lasciate dietro perché stai già andando.
Davanti a noi,
adesso, solo la certezza di pedalare fino alla meta.
O l’incertezza, ma non importa.
Il dono più grande
che un viaggio ti possa fare non è sempre la meta, la destinazione, ma
l’incredibile varietà di episodi, di incontri, di storie imprevedibili che
accadono durante.
O anche prima, a volte.
Ora il Vostok
sonnecchia nella pancia della nave, eppure prima della partenza ci sono stati
degli imprevisti.
Anzi alcuni
imprevisti ci hanno fatto rimandare la partenza stessa.
Il cilindretto
della messa in moto ha dato forfait.
Il pignone del
motorino d’avviamento incastrato.
Risultato: motorino
d’avviamento bruciato, due giorni passati a cercare i pezzi di ricambio giusti
(parliamo di un Volkswagen di trent’anni fa), l’incertezza circa la partenza e
due nuovi pulsanti sul cruscotto.
Però adesso il
vecchio Vostok è un po’ più astronave: un pulsante serve per le candelette e
l’altro per la messa in moto.
Un camper dell’82
che si mette in moto con un pulsante è ancora più speciale di quanto si possa
immaginare.
Mi ricorda uno di
quei telefilm di fantascienza degli anni ‘70 in cui si pensava che il futuro
sarebbe stato arricchito di comodità quasi inutili ma così dannatamente
accattivanti.
Ecco, il Vostok con
la sua tecnologia vintage sarebbe stato un ottimo protagonista per quelle
storie…
Il mare continua a
scorrere sotto la nostra nave e un sole pigro ma prepotente inizia a regalargli
i riflessi blu scuro che si vedono solo in mare aperto.
Tra qualche ora
saremo a Patrasso e di lì risaliremo la Grecia fino alla penisola Calcidica e
poi Istanbul e poi Turchia.
Seduto al tavolino
del bar.
Intorno a me il
classico campionario umano da traghetto che va oltre l’adriatico.
Ho preso svariati
traghetti per attraversare l’Adriatico.
Traghetti per la
Croazia, per il Montenegro, per l’Albania e per la Grecia.
Ogni tratta ha i
suoi stereotipi, i personaggi fissi che ritrovi come una tradizione.
Vecchiette vestite
eternamente da vedove, camionisti con improbabili pancioni e zoccoli di legno,
mamme con stormi di bambini che sfrecciano dappertutto, coppie di mezza età con
decine di pacchetti avvolti in bustoni di plastica variopinti e tenuti insieme
con lo spago, ragazze americane con short e ciabattine di plastica.
È quello che adoro
di questi traghetti.
La viva umanità che
si sposta da una parte all’altra del mare portandosi sui volti tutto il
personalissimo bagaglio di vita.
Al tavolino, di
fronte a me, un pope sulla settantina sonnecchia, ha la barba lunga, ben curata
ma il suo abito talare ormai quasi non è più nero.
È di un nero
stanco, quasi grigio, rattoppato qua e la con pezze di fortuna dalle tonalità
diverse di nero.
Lo osservo a lungo.
Apre gli occhi, si
stiracchia, ricambia il mio sguardo, sorride e mi rivolge la parola
“Kalimera”
Gli sorrido.
È Grecia, ormai.
Che l’avventura abbia inizio.