«La mafia non è l’antistato, come spesso si dice. Ma è dentro lo stato, nel suo cuore, al momento della realizzazione delle grandi opere pubbliche, degli appalti, della gestione del denaro pubblico, dei rapporti con la politica. Le sentenze che ci sono state parlano chiaro».
A dirlo è Giovanni Impastato, fratello di Peppino, ucciso, nel ’78, per volontà del boss Tano Badalamenti. Giovanni è stato ospite nella nostra città, non solo per presentare il suo ultimo libro “Mio fratello. Tutta una vita con Peppino” (Libreria Pienogiorno, 2021), ma anche per partecipare ad una due giorni di appuntamenti molto intensa. Prima all’Istituto Vitale Giordano, dove giovedì scorso c’è stata un’assemblea molto intensa, poi a Bari e, per finire, al Teatro Traetta.
Ad introdurre il suo appuntamento conclusivo, il sindaco Michele Abbaticchio: «Abbiamo accompagnato Giovanni tra le strade della città di Bitonto, facendogli vedere il recente murales vicino alla sala della musica, e, nel centro storico, le scritte illuminate, tra cui vi è anche una frase di Peppino, l’unica che fu presa a sassate dopo l’inaugurazione. Significa che la forza delle parole di Peppino era talmente grande che non solo ha messo in difficoltà le organizzazioni criminali di allora, ma anche chi delinque oggi».
Intervistato dal giornalista Pier Girolamo Larovere (Primo Piano), l’attivista antimafia, partendo dal suo libro, ha raccontato le memorie d’infanzia in una famiglia in cui la mafia era ben presente: «Da piccoli sentivamo spesso parlare di onore, di rispetto, di famiglia e di tutta una serie di cose che ci colpivano. Andavamo alla ricerca del loro significato. Finchè, un giorno, mio padre, scoperto a letto con l’amante, venne a casa fuggendo in mutande. Mia madre, vedendolo, capì tutto e gli disse: “Parli di onore, rispetto e famiglia e ti riduci in questo modo?”. Questi sono i mafiosi. Esseri ridicoli come li definiva Peppino. Io, nel libro ho voluto dissacrare quella mentalità mafiosa, partendo da quell’episodio».
«Questo libro, per me è stata una fatica, una sofferenza. Racconto alcuni particolari della nostra vita che nessuno conosce» continua Impastato, ricordando la figura e gli insegnamenti di sua madre Felicia Bartolotta: «Nel libro racconto la vera madre di famiglia, che cerca di proteggerci, di non metterci in contrasto con nostro padre, di raccomandarci sempre di avere rispetto per la famiglia, intesa non in senso mafioso. Nelle fredde serate d’inverno, ci raccontava gli anni della guerra, di quanto fosse brutta. Ci parlava del fascismo, dell’arroganza dei gerarchi e delle milizie fasciste, dei loro soprusi. Ci parlava di nostro padre che era stato confinato ad Ustica. Noi eravamo curiosi, perché, crescendo, ci rendevamo conto che qualcosa non andava».
E ricorda anche lo zio Cesare Manzella, capomafia nella Cinisi del dopoguerra, fino a quel 1963, in cui un’autobomba lo uccise. Episodio che traumatizzò il giovane Peppino e che fu alla base del futuro impegno contro la mafia: «Mio zio Matteo fu un grande educatore, per noi. Anche dal punto di vista politico. Liberale, ma votava Pci, come tanti altri che, pur non essendo comunisti, ritenevano che quel partito avesse avuto una funzione importante nel salvare la democrazia in questo paese».
E proprio la politica fu un elemento chiave della lotta contro la mafia: «Gli anni ’60 non sono stati solo anni di disordini, ma anche di lotta, di studio, di ricerca, di formazione. Fu in quegli anni che Peppino sviluppò la sua coscienza critica contro la mafia».
«Ma anche mio padre un percorso lo ha fatto, se pur provenisse dalla mafia» continua, ricordando l’estremo quanto vano tentativo di salvare suo figlio dalla condanna a morte decisa dal boss Badalamenti: «Mio padre tentò di evitare la morte di Peppino, recandosi negli Stati Uniti per ottenere l’aiuto dei nostri parenti mafiosi, contro Badalamenti. In quel momento, non era più mafioso, ma solo un padre che voleva salvare il figlio. In quel momento infranse le leggi mafiose che impongono ai padri di uccidere i figli e viceversa, in caso di infrazione al codice della mafia».
Infrazione pagata con la vita, dal momento che pure Luigi Impastato, poco prima della morte di Peppino, fu assassinato.
«La mafia non è antistato» ribadisce Giovanni Impastato: «I fenomeni di antistato li abbiamo avuti e li abbiamo sconfitti: il brigantaggio, il banditismo siculo e sardo, il terrorismo nero, le brigate rosse, la banda della Magliana, le bande criminali come quella di Faccia d’Angelo. Perché la mafia non l’abbiamo mai sconfitta? Perché non c’è mai stata la volontà di farlo. C’è stato chi ci ha provato, come Falcone, ma è stato ucciso proprio perché non c’è stata la volontà di proteggerlo. Non direi mai che lo stato ci prende in giro, ma ha sempre affrontato il tema della lotta alla mafia sull’onda dell’emergenza, non della prevenzione. La legge sull’associazione a delinquere di stampo mafioso è stata fatta dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa. La legge antiracket viene approvata dopo l’uccisione dell’imprenditore Libero Grassi».
Dall’attivista antimafia, anche un’analisi sulla situazione della mafia oggi: «È cambiata, rispetto a tanti anni fa, ma anche a qualche anno fa. Tranne nel foggiano, dove si sta verificando una situazione diversa, la mafia è sommersa e cerca di non apparire. Ha cambiato strategia ed è diventata più “pacifista”. Si è data alla finanza. La mafia è oggi globalizzata. Le decisioni all’interno della cupola vengono prese, oggi, dalla borghesia mafiosa fatta di banchieri, medici, avvocati, non più da criminali che hanno la quinta elementare, che non hanno più quella potenza tale da poter decidere. Questi ultimi comandano nei singoli territori, sparando qualora ci fosse bisogno di farlo».
«Non ne posso più della parola “legalità”. I fastidi che ha dato sono stati enormi – conclude – È stata trasmessa in maniera sbagliata. Non può essere solo rispetto delle leggi, perché alcune leggi, in una repubblica democratica e antifascista, non si possono rispettare. Bisogna dire che la legalità, più che il rispetto delle leggi, deve essere il rispetto della dignità umana».