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Home » Giornata Mondiale dell’Alzheimer. A tu per tu con il direttore di Onlus Villa Giovanni XXIII

Giornata Mondiale dell’Alzheimer. A tu per tu con il direttore di Onlus Villa Giovanni XXIII

"La domanda, purtroppo, sta crescendo a livello esponenziale assieme alle forme di demenza e non c’è una bella prospettiva"

Viviana Minervini by Viviana Minervini
25 Settembre 2013
in Cronaca
Giornata Mondiale dell’Alzheimer. A tu per tu con il direttore di Onlus Villa Giovanni XXIII
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Il 21 settembre è
ricorsa la XX Giornata Mondiale dell’Alzheimer, la malattia
neurovegetativa più temuta che colpisce sempre più persone. 

Dal 14 febbraio 2008 è attivo a Bitonto presso Onlus Villa Giovanni
XXIII
il Centro Servizi per i malati del morbo di Alzheimer, primo centro
in Puglia interamente dedicato a questa patologia.

Quindi, anche in questa struttura, non si è persa occasione per un vero e proprio open day per i parenti
degli ospiti presenti nel centro bitontino per vivere un vero momento di
condivisione, mostrando le attività che vengono svolte. 

«Si è data la possibilità a qualche anziano con
capacità cognitive, che frequenta il centro diurno, di esibirsi
– ha raccontato il dott. Nicola Castro, direttore di Onlus Villa Giovanni XXIII -. In particolare c’è stata una signora, che
magari subito dopo non ricordava il suo nome, ma ricordava alla perfezione come
sfiorare i tasti della fisarmonica che suonava. È stato davvero emozionante
».

D. Il centro svolge una funzione
fondamentale che si relaziona tra la popolazione e quelle che sono le esigenze di
familiari, patologie e vita d’ogni giorno dei pazienti. Che rapporto ha la
struttura con il nostro territorio?

R. «Il nostro rapporto con il territorio è un rapporto sovra
comunale, siamo un centro provinciale. Abbiamo ospiti da Bari e provincia, per
esempio ci sono ben venticinque molfettesi. Questo centro rappresenta un ponte
tra la famiglia e gli ospiti – come piace chiamarli a noi -, la loro
partecipazione è di reciproca fiducia. I parenti possono venire in qualsiasi
ora e noi auspichiamo, e certo non ostacoliamo, la loro presenza. Inoltre, sono
nate delle belle amicizie tra i famigliari di varie persone: mettono in comune
il loro stress e si danno reciproco sostegno, specialmente di carattere
psicologico. Si crea un ambiente di casalingo».

D. Quanti sono gli ospiti
all’interno di questa grande casa e famiglia?

R. «Nel centro diurno abbiamo trenta ospiti nella fase
iniziale della malattia, con dei margini significativi per poter lavorare sulla
riabilitazione, mentre nel centro residenziale ci sono ventidue ospiti con
gravi compromissioni anche a livello motorio».

D. Siete quindi una microcomunità
che vince la solitudine…

R. «Siamo favoriti perché la struttura è stata progettata
come micro comunità. Ci sono mille e cinquecento metri quadri a dimensione dei
nostri ospiti: ci sono circa cinquanta metri quadri ciascuno, proprio perché il
piccolo nucleo con un equipe stabile favorisce la conoscenza e migliore più
diretta dell’ospite, il mantenimento di qualcosa gestibile come una famiglia.
La scelta è stata anche architettonica progettato e realizzato per il paziente,
per assecondare le esigenze del malato. Chi è affetto d’Alzheimer perde il
ritmo sonno veglia, con scale e ascensori avrebbe avuto problemi di movimenti,
cosi invece non è ostacolato in nessun modo. È importante assecondare il
paziente e non correggerlo evitando in questo modo stati di aggressività,
confusione e nervosismo.
Chi lavora non è un personale occasionale, ma
resta sempre lo stesso, meritandosi la fiducia e la sicurezza da parte del
paziente».

D. Memoria, etimologicamente
significa guardare attraverso, come riuscite osservandoli a stimolare il
recupero della stessa?

R. «Ci sono piani di intervento ad personam. Si valutano
le attività professionali, gli hobby, c’è una lunga fase di osservazione in cui
si valutano le propensioni personali e su quelle si cerca di programmare e
realizzare delle attività che aiutano a mantenere le attività residue.
Non lo si
riporta allo stato quo ante, ma si cerca di provocare situazioni di emozioni,
soprattutto con le donne alla quale si stimola il senso di maternità – in loro
innato -,
con la doll therapy con il
bambolotto, si riesce a far sviluppare degli atteggiamenti che commuovono e le
pazienti si comportano come quando cambiavano, vestivano e coccolavano i loro
bambini. Anche la pet therapy riusciamo anche a ottenere dei significativi
risultati, come avviene anche per la lettura del giornale, il ricamo, attività che
quindi ricordano i tempi giovanili. Fanno, inoltre, delle uscite periodiche in
supermercati, centri commerciali, molti sono interessati alla musica, alla
recitazione, al giardinaggio e all’attività fisica».

D. I malati vivono casi di
irritabilità, aggressività, come viene addestrato il personale e i familiari nelle
cure del paziente?

R. «Il personale segue corsi di formazione continua, di
aggiornamento interno. È evidente che la sfida è quella di non ricorrere alla
cura farmacologica, usarla solo come estrema ratio. L’utilizzo avviene in
maniera contenuta solo quando le altre attività sono fallite. Le terapie di mantenimento
vengono autorizzate e definite dai distretti socio sanitari che effettuano una valutazione
multidimensionale.  Si evitano invece i
farmaci psicotici di addormentamento
. La gestione, anche a casa, del
caregiver è più facile se il paziente è stato impegnato scaricando la sua
energia nelle attività, ed è più tranquilla, favorendo la quiete notturna.
Spesso accade che molti pazienti del centro
diurno non frequentano più la struttura riuscendo a restare a casa. Da un lato c’è
soddisfazione perché abbiamo fatto un buon lavoro, dall’altro lato si rileva una
sconfitta perché non siamo riusciti a far capire alle famiglie l’importanza che
questa esperienza continui perché il paziente non ha gli stessi spazi, gli
stessi approcci con figure professionali. Ci ritroviamo, dopo qualche tempo,
persone che tornano con un decadimento della malattia molto più rapido che deve
quindi restare nella residenza. Sono i primi anni di vita della struttura e
bisogna lavorare molto sull’aspetto culturale che ci vede ancora un passo
indietro. All’inizio si cerca di esorcizzare il problema per una sorta di
pudore della malattia, invece stiamo cercando di far capire alle famiglie, che
soprattutto nei momenti iniziali della patologia, è utile frequentare almeno il
centro diurno per uscire da questo pregiudizio vista anche l’assenza di liste d’attesa
per tale servizio».

D. Ecco, le liste d’attesa…
terribile cancro delle strutture sanitarie. Come funziona da voi e che rapporto
avete con l’ente sanitario?

R. «Il medico di base propone al Distretto Socio Sanitario
di competenza il caso del paziente che ne fa fare la diagnosi da uno specialista
di una struttura pubblica. Questo, sulla base della valutazione del caso e la
situazione del malato, propone uno stato assistenziale. A seconda dello stato viene
definita la frequenza del centro se solo diurna o residenziale. Per le liste d’attesa
nella parte residenziale si va da un minimo di otto mesi arrivando anche all’anno
d’attesa.

Si stanno sviluppando servizi sia di assistenza
domiciliari per fronteggiare la chiusura delle strutture ospedaliere che hanno
modificato la nostra natura primaria: si tratta di persone già ultra ottantenni
che esigono una
attività
infermieristica più elevata.
Spesso siamo chiamati a far cose che vanno ben oltre il nostro dovuto…

Vengono applicate anche delle forme miste di
assistenza che si alternano tra la frequenza del centro diurno con l’assistenza
domiciliare. La domanda, purtroppo, sta crescendo a livello esponenziale
assieme alle forme di demenza e non c’è una bella prospettiva. Si pensa per
questo ad un eventuale allargamento o ad un’ulteriore struttura.

Per il momento si stanno gettando le basi per il
condominio solidale in cui gli anziani vivranno una vita autonoma e avranno la
possibilità di interagire tra gli altri condomini per la vita comune e per
quella privata con i famigliari». 

Un’infermiera che con tanto amore imboccava un anziano, ho guardato il cielo azzurro e ho chiesto alla mia amica che m’ha accompagnata in auto: chissà cosa significa vivere sapendo che da lì a poco non ci saremo più. Ah, ma effettivamente è così. Un piccolo gesto d’amore, un raggio di sole… e chissà che la vita non risplenda breve, tornando noi indietro, bambini nella folle vecchiaia…

Tags: alzheimerbitontomalattiamorbopazientevecchiaiavilla giovanni XXIII
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