Lo avevano annunciato meno di un mese fa.
In bieco burocratese, i dirigenti della Bridgestone Bari così avevano scritto alle organizzazioni dei lavoratori e all’Ufficio lavoro della Città metropolitana: “Restano immutate le esigenze di carattere
produttivo e organizzativo che hanno giustificato la dichiarazione di 377
esuberi“.
Ancora: “Alla luce dell’uscita di 311 dipendenti che hanno aderito
alla procedura di mobilità sulla base del criterio della non opposizione, residuano alla data odierna (era il 14 gennaio, ndr) 66
risorse, tuttora in esubero“.
Insomma, stava per abbattersi la scure dei licenziamenti (mascherati dalla consueta “procedura di mobilità“) sui lavoratori dello storico stabilimento.
Tra di loro, molti bitontini.
Vane tutte le trattative che sono state intraprese negli ultimi anni.
La politica ha fatto andirivieni dinanzi ai cancelli della fabbrica, senza effettivo costrutto.
Persino i tavoli di concertazione presso il ministero capitolino non hanno sortito esiti positivi.
E, ora che il tempo è scaduto per gli operai in esubero – perché “si tornerà ai livelli di pre-crisi non prima del 2020“, fanno sapere i quadri dirigenziali -, sembra essere calata una strana coltre di silenzio sul destino (drammatico) di questi uomini, che sono altrettante famiglie trepidanti in attesa di un domani senza domani.
I sindacati promettono battaglia cercando di salvare il salvabile e facendo premio sull’inquadramento di alcuni livelli.
E per alcuni il declassamento dovrebbe essere salvifico, anche se sembra l’ultima spiaggia.
Frattanto, s’avanza sempre più inquietante l’ipotesi della chiusura della sede barese.
Ok le regole del mercato che impongono decisioni inevitabili, ma alle famiglie dei lavoratori chi ci pensa?