La libertà di espressione va anche riguardata secondo una prospettiva di diritto internazionale privato. Quello che accade nei social network, che favoriscono uno sdoganamento del linguaggio ricercato, veicolandone anche derive linguistiche oltreché errori grammaticali, può avere delle ricadute in ambito penale per chi condivide, commenta, tagga, twitta in maniera impropria e a nocumento altrui.
I social network purtroppo amplificano la portata dei contenuti che vengono lasciati dagli utenti e, in breve tempo, la visibilità raggiunta può rappresentare un’arma a doppio taglio per chi non gradisce determinati contenuti. Non si devono assolutamente pubblicare o condividere: foto o video di utenti senza il loro consenso, inclusi coloro che non sono iscritti ai social; messaggi privati sul profilo di una persona o sul proprio.
Nonostante queste regole di buona educazione online, tanti sono i casi di diffamazione e quelli di hate speech. Anche se il Protocollo addizionale alla Convenzione sul Cybercrime, come definito dal Consiglio D’Europa, limita l’hate speech ai commenti razzisti, xenofobi, anti-semiti e a forme di odio legate all’intolleranza, l’hate speech rappresenta l’altra faccia della medaglia della libertà di espressione, minandone la sua stessa stabilità e il suo portato civile. La Decisione del 25/01/1999 n. 276 ha promosso forme di autoregolamentazione e di controllo da parte degli operatori del settore web sui contenuti in rete.
Ma queste attività, a carico dei provider-gatekeeper, presentano dei limiti, come anche quelle legate ai legislatori. Si evidenziano tutte le lacune giurisprudenziali in merito alla censura e sistema sanzionatorio per le espressioni di odio (hate speech). Ci si affida al buon senso degli utenti sia nell’adozione della netiquette sia nella segnalazione di contenuti ritenuti offensivi in modo diretto e tempestivo ai provider sia nel contrasto ai pregiudizi con azioni concrete online ed offiline.