Questa domenica, l’ultima del mese di maggio, la iniziamo così. Con queste parole. “Ora che è morto Paolo Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta”.
La strage di via D’Amelio, allora, con la quale Cosa Nostra ha fatto saltare in aria il giudice palermitano e cinque membri della sua scorta (per la prima volta anche una donna) è il crocevia di tutto. Un ultimo punto di partenza di questa tristissima storia ma sicuramente il punto di arrivo. Perché, dopo questo, c’è soltanto il suicidio dell’autrice di quelle bellissime parole. Soltanto una settimana dopo quel 19 luglio 1992. A soli 17 anni.
Come lui, anche lei, Rita Adria, la giovanissima Rita Adria, è rimasta un simbolo della lotta alla mafia e della volontà di riscatto. Una ragazza che sceglie di farla finita come protesta contro i soprusi mafiosi e quella montagna così difficile da scalare.
Quella di Rita è una storia fatta di punti di partenza, punti di svolta e punti di non ritorno, appunto.
Lo start è nel 1974, l’anno in cui nasce a Partanna, in provincia di Trapani. ll papà, Vito, pastore e proprietario di sette ettari coltivati a vite e ulivo, appartiene a una cosca mafiosa del trapanese, così come il fratello Nicola, di dieci anni più grande, al quale però era molto legata.
Il punto di svolta a soli 11 anni, nel 1985. Papà Vito è ucciso così come accadrà al fratello nel 1991. La moglie di Nicola, Piera Aiello, presente alla sua morte, denuncia i due killer e collabora con la polizia, trasgredendo la legge dell’omertà. E, sotto protezione, viene trasferita a Roma.
Anche Rita, rifiutata dalla madre e dalla sorella, lasciata dal fidanzato Calogero, mostra coraggio e segue l’esempio della cognata. Così, si reca in segreto a Marsala e, presentatasi al procuratore Paolo Borsellino, gli rivela tutti i segreti della cosca cui appartenevano il padre e il fratello, iniziando un rapporto fatto d collaborazione e profondo affetto, che porteranno all’arresto di decine di mafiosi e alla loro condanna. La ragazza riceve minacce e viene trasferita a Roma sotto protezione e con nuovi documenti. Nella Capitale scrive un diario con considerazioni molto sensibili, cariche di condanna per la cultura mafiosa, con vivo senso di giustizia e con la speranza che le nuove generazioni possano liberarsi dal cancro mafioso: “Prima di combattere la mafia devi farti un esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combatterla nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci”.
Già, perché come diceva Giovanni Falcone, la mafia, oltre a essere un fenomeno umano, è essenzialmente un fenomeno culturale che attanagliava una terra bellissima e disgraziata.
Ci sono anche i punti di arrivo, dicevamo. Giunti davvero troppo presto. Il primo è il tritolo lungo l’autostrada che da Palermo conduceva a Mazara del Vallo contro il quale, allo svincolo per Capaci, nulla ha potuto Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tre uomini della scorta. Il secondo è, come detto, l’esplosivo di via D’Amelio.
Esattamente una settimana dopo, il 26 luglio 1992, Rita perde ogni speranza, il sogno di riscatto si spezza: “Quelle bombe in un secondo spazzarono via il mio sogno, perché uccisero coloro che, col loro esempio di coraggio, rappresentavano la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto. Ora tutto è finito”.
Si suicida gettandosi dal quinto piano del palazzo dove l’aveva nascosta la polizia, nella Via Amelia di Roma. La sua storia diventerà emblematica e sarà rievocata in teatro, nei libri, nei film.