La prima parola che sovviene, ripensando a mente fredda e lucida (mamma mia, quanto è difficile) a tutto quello che è successo ieri, è civiltà.
In tutte le sue sfaccettature. Risvolti. Angoli. Significati.
Giuseppe, per esempio, con i suoi 25 anni appena apparteneva, da qualunque punto di vista la si guardi, a quella generazione che ogni mattina si alza con i sogni. Quelli di volare. Di realizzarsi. Di essere felici. Di farcela prima e meglio degli altri in questo mondo veloce e matto dove non possiamo permetterci di essere dei vasi terracotta in una giungla di vasi di ferro.
Purtroppo, però, Giuseppe, ha perso la beltà. Non per colpa di quella natura che di tanto inganna i figli suoi (concedeteci, in un giorno di così grande angoscia, un omaggio al poeta di Recanati), ma a causa dell’uomo. Di un uomo come lui, che però è diventato belva e animale. Molto più che lupo.
E uomini che ammazzano altri simili (e poco importa sapere i motivi in questi casi, onestamente) non può appartenere alla civiltà.
E non può essere civiltà quel gruppo di persone che, standosene magari in pantofole dietro alla tastiera di un computer pronto a fare il paladino di questa o quell’altra giustizia, si è subito prodigato a fare quello che è più facile in questi casi. Anche e soprattutto a Bitonto. Prendere di mira il politico di turno (ora si chiama Michele, ma avrebbe anche potuto essere Raffaele, Nicola o Umberto), le forze dell’ordine, o addirittura la movida, in questo triste, notorio e sadico gioco dello scaricabarile, non è roba da andare fieri.
Perché quando è l’individuo a essere malato, puoi farci ben poco. Se non interrogarti, interrogarci, per capire dove siamo finiti. E perché siamo precipitati così in basso.
E non possono appartenere alla civiltà tutti coloro che ieri, per tutto il pomeriggio, sempre celandosi dietro i tasti di un pc, mentre la nostra città era ripiombata nell’ennesimo fatto di cronaca nera ripreso da giornali, telegiornali nazionali, si divertiva a denigrare l’umile ed encomiabile lavoro – quello di questa testata – di chi stava cercando di raccontare l’accaduto.
Stando sul posto, naturalmente. Gli unici.
Sentendo tutte le voci del caso, ovviamente.
Trattando la notizia con la dovuta attenzione e usando terminologie e foto appropriate, deontologicamente parlando.
Senza speculare. Cosa non facile, visto cosa stavamo raccontando e il non per nulla prevedibile evolversi della situazione.
Tenendo presente che con questo piede straniero – già, tutto quello che non è umano è da considerarsi straniero – sopra il cuore non era per nulla facile prendere carta e penna e mettere da parte i sentimenti. Altri, invece, i tanti improvvisati giornalisti da tastiera, mentre Giuseppe lasciava questo mondo, si divertivano a criticarci la posizione della virgola, del punto, dei due punti, del punto esclamativo, perché indossavamo il vestito rosso anziché quello verde, perché l’uso delle maiuscole e non delle minuscole.
Tutta roba da “de minimis”. Che, continua la locuzione latina, “non curat praetor”. Schiocchezze, tradotto.
Cosa fare adesso? Fermarsi tutti (bene ha fatto l’amministrazione comunale ad annullare gli eventi estivi in programma per i prossimi giorni), e riflettere seriamente.
Perché con il povero Giuseppe siamo morti tutti noi. Siamo colpevoli tutti, soprattutto se tra qualche giorno torneremo a girare la testa dall’altra parte.
Pensiamo in silenzio. Su come abbassare i toni, virtuali e reali. Su come recuperare educazione e rispetto, a tutti i livelli e in ogni ambito del vivere quotidiano.
Su come tornare ad aver riguardo l’uno per l’altro. A parlarci. A confrontarci.
A tornare a essere civiltà.
Proviamoci, almeno.
Non farlo significa dare una ulteriore coltellata a chi ieri ha visto sfiorire per sempre i suoi sogni.