“Dal punto di vista matematico, se un ubriaco vive in una città bidimensionale e cerca di tornare a casa girando a caso a ogni incrocio, prima o poi ci arriva sicuramente. In una città tridimensionale, invece, la complicazione di dover anche salire o scendere a caso da un piano all’altro fa si che la probabilità di arrivare non solo all’entrata del proprio condominio, ma anche alla porta di casa, scende al 30%. Se dunque volete andare negli Stati Uniti a ubriacarvi, scegliete come meta la piatta Los Angeles ma non New York, a causa della sua sobria geometria tridimensionale.”
Così concludeva Odifreddi, un interessante articolo sulla città razionale. La città ideale, così come concepita da Leonardo Battista Alberti, non prevedeva spazi ai meno fortunati. Era una città per le classi elevate, svuotate dalla povertà e ricca di bellezze artistiche.
Paradossalmente è la mobilità di merci e persone e non la vivibilità, a preoccupare gli architetti contemporanei, spinti da parcelle milionarie e interessi economici stratosferici.
La linea ferroviaria ad alta velocità della California, il Nuovo Canale di Panama, il corridoio economico Cina-Pakistan e la metropolitana di Riyadh: sono questi, per grandiosità, complessità tecnica e impatto economico generato, i quattro mega-progetti attualmente in corso nel mondo. Insomma, spostamento veloce di uomini e mezzi è la molla principale del capitalismo. Tutto, pensato in funzione di una società che non invecchierà o che non si ammalerà mai.
Progettare una città autonoma e perfettamente collegata a tutto, vale a dire al nulla, è tornare a pensare utopisticamente alla città ideale. Ma l’intento è creare una società non statica, continuamente in movimento e proprio per questo infelice. In linea teorica, oggi, potremmo viaggiare stando tranquillamente in poltrona, nel salotto di casa. Invece stiamo costruendo un mondo dove si potrà percorrere migliaia di chilometri, in men che non si dica.
Paesaggi stravolti, condizioni climatiche cambiate per sempre, uomini e donne sradicati dal loro habitat, in nome di un progresso che non si pone più il problema del benessere sociale, ma, al più, quello individuale. I segnali sempre più evidenti di maggiore solitudine dell’essere umano ed incapacità di affrontare gli enormi problemi che la nuova società post-industruale pone, non sembra spingerci a soluzioni a misura d’uomo, ma a rincorrere uno sviluppo insostenibile.
Quello che mi sembra assurdo, è proprio questa l’epoca in cui si sta cercando di superare il problema di grandi spostamenti di masse lavoratrici, come era avvenuto in Europa, a partire dagli anni ’50. Hanno chiuso i mega-complessi industriali, lasciando per strada migliaia di famiglie e si ritorna a pensare di far viaggiare milioni di persone e farle rientrare alla base, magari nella stessa giornata.
Città che rischiamo di svuotare, lasciandola ai vecchi e ai disabili, i quali non potranno spostarsi, visto lo stato attuale dei centri abitati.
Chissà, saranno le persone con disabilità a salvare il mondo?