Europa, anno 2018: lo spazio e il tempo che, con non poca fatica, lavorano per generare accoglienza. Siamo il teatro del grande movimento di persone dopo la seconda guerra mondiale. Nell’epoca in cui la parola “crisi” è la più detta, la più dibattuta e la più studiata, si può solo immaginare la bagarre politica che si scatena tra i paesi che si devono accordare per accoglierli.
Si sta discutendo l’enorme impatto dei disturbi di salute mentale su migranti e rifugiati. Il dottor Elbert, dell’Università di Costanza ha detto: “Più della metà di coloro che sono arrivati in Germania negli ultimi anni mostra segni di disturbi mentali, e un quarto di loro soffre di PTSD, ansia o depressione, che non potranno migliorare senza un aiuto”.
La ricerca è cominciata una notte fredda di gennaio: la dottoressa Holmes del Karolinska Institute di Stoccolma cercava materiale per lo studio del disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Lo ha trovato nei frammenti di vita sconnessi dei profughi della stazione, annotati su qualche pagina bianca dei quaderni che gli aveva distribuito. “E’ uno scandalo che non venga riconosciuta quanto lo sarebbe un’epidemia di una malattia fisica”, ha sostenuto James Kirkbride, epidemiologo dello University College di Londra. Lo stress provocato dall’esclusione sociale aumenta il rischio di schizofrenia e psicosi, modificando la sensibilità del cervello al neurotrasmettitore dopamina.
Il processo di integrazione non può prescindere dalla cura del dolore. Non è pensabile che un uomo si misuri con lo stress dell’apprendimento di una nuova lingua, nuove relazioni, nuove abitudini, senza un cospicuo senso di sanità mentale. Medici, biologi e psicologi stanno lavorando per mettere a punto nuove terapie e per studiare la biologia di base dei disturbi psichiatrici; i sintomi dell’insonnia e della depressione possono e devono essere trattati. La politica non può scansare questa riflessione. “Farsi una vita nuova” è l’aspirazione di Wissal, che trascina ancora i segni del PTSD; questa donna ha toccato la solitudine e l’emarginazione, la violenza e la povertà. “D’un tratto esplode la casa e pure la vita”, perdi tutto e nessuno “ti può sentire”.
Siamo nella terra di mezzo che non si può permettere il lusso di schiacciare le notti insonni di quegli uomini soli, che passano le onde, più gelide delle torture che hanno dovuto guardare troppo presto. Non è irragionevole sentirsi corpi che si muovono sull’orbita della post-migrazione, che riconoscono di essere l’uno “l’estraneo” dell’altro, che protendono all’inclusione, attraverso piani di rieducazione, emotiva prima di tutto. Si può essere certi che non si è “veramente” britannici, italiani o francesi se si è soltanto originari del posto, lo ha detto Alex Mesoudi, docente di Evoluzione culturale presso l’Università di Exeter. I migranti di seconda generazione possono rapidamente assumere “mentalità simili a quelle del paese ospitante, pur conservando un forte senso di identità rispetto alle proprie radici”.
Nell’era della robotica, della fisica spaziale, della tecnologia che ci fa “connessi” si deve ammettere che i buchi neri ancora da studiare, sono quelli che affliggono la coscienza delle persone.