“Il
mio più grande desiderio è sempre stato di andare più veloce di tutti, anche
dell’orologio”. Basterebbe questa frase per dare l’idea di chi sia stato Ayrton
Senna (da Silva).
Quel
1° Maggio 1994, poco più di vent’anni fa, ero davanti al televisore. Il Gran
Premio di San Marino era imperdibile. Le sequenze dell’incidente le ho viste in
diretta: lo schianto, i rottami, i soccorsi… La curva del Tamburello del
circuito di Imola era difficile. Si percorreva a velocità molto elevata, ma uno
come lui non l’avrebbe sbagliata. Un guasto dell’auto, un cedimento meccanico
era più plausibile. La magistratura, infatti, lo ha accertato anni dopo:
rottura del piantone dello sterzo. Il pilota non poté sterzare. Nell’urto, un braccio
della sospensione anteriore ferì mortalmente Senna alla testa. Pochi centimetri
più in alto o più in basso ed il pilota sarebbe uscito dall’abitacolo con le
sue gambe.
Da
quel giorno niente è stato come prima e non è retorica.
Senna
guidava in modo unico. Ha vinto tanto, avrebbe vinto ancora. Dopo, c’è stato
chi ha vinto di più, ma non nello stesso modo, non con quelle monoposto (non avevano
centraline elettroniche per “assistere” il pilota, chi sbagliava usciva), non
con avversari come Prost, Mansell, Piquet ed Alboreto.
Non
per sminuire il valore dei piloti attuali, anche perché ogni epoca ha i suoi
miti, ma a quel tempo c’era ancora, oserei dire, qualcosa di epico nelle corse.
La monoposto di Senna sui circuiti pareva volare sia che splendesse il sole o
che cadesse la pioggia.
L’approccio
del pilota brasiliano alla gara, al rischio, al risultato era molto diverso da
quello degli altri: diretto, autentico, passionale,
coraggioso. Lo stesso che conservava nelle conversazioni: le sue interviste – a
volte taglienti, quando riguardavano gli avversari – erano chiare sia che affrontassero
temi tecnici, che aspetti più impegnativi. Esprimeva concetti sulla
spiritualità, l’anima, Dio, i valori umani con una profondità sconosciuta al
resto del Circus, sempre con estrema chiarezza, anche quando lo faceva in
lingue diverse dalla propria.
Un
precursore della comunicazione, intesa come veicolo per la promozione di se
stesso e di quello che poteva trasformarsi in business. Era attento, già ai
tempi della Formula 3, a divulgare bene le notizie sportive che lo riguardavano
e, poco prima, aveva registrato il marchio ”Ayrton Senna” per poterlo, poi,
sfruttare commercialmente.
Un
uomo descritto da molti come scostante, ma, forse, era solo concentrato a fare
bene e qualcuno, probabilmente, sbagliava momento per avvicinarlo. Di sicuro
preciso, forse pignolo: verso il tramonto, faceva, da solo, il giro del
circuito a piedi per vederlo meglio, per studiarlo da un altro punto di vista.
Il suo punto di vista, appunto. Quello sulla Formula 1 di quegli anni era
critico, perché, a suo dire, c’era molta “politica” e lui voleva solo correre,
migliorare e vincere. Nient’altro.
Ve
lo immaginate adesso? Nella Formula 1 attuale in cui tutto è previsto e
standardizzato? Il suo talento sarebbe stato mortificato, la sua indole
repressa. Forse, non ci sarebbe semplicemente stato.
Per
palesare quanto fosse dicotomico verso l’ambiente della massima Formula, si
potrebbe ricordare la risposta che diede ad un giornalista che gli chiedeva
quale fosse stato il suo più grande avversario: “quando arrivai in Europa, mi
ritrovai un compagno di squadra che si chiamava Fullerton. Aveva una grande
esperienza ed è stato grande guidare con lui, perché era veloce e tosto. Ecco
per me era un pilota davvero completo. Un puro guidatore. Era pura
competizione. Non c’era politica, non c’erano sponsor o denaro. Soltanto
competizione”. Non Prost, Mansell, l’allora giovane Schumacher…il suo più
grande avversario era Terry Fullerton che incontrò in Italia, sul finire degli
anni ’70, ai tempi dei kart alla DAP.
Correre
per lui era solo passione e vittoria. Nient’altro.