Come abbiamo detto nella precedente puntata di questa rubrica, tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70, si verificò, nel Mezzogiorno e, in particolar modo, in Terra di Bari, un tardivo miracolo economico. Ma l’ombra della crisi, nonostante quello sviluppo giunto a rimorchio del Settentrione, incombeva minacciosa. Del resto, che gli effetti positivi del boom economico cominciarono ad affievolirsi lo possiamo notare già dagli anni ’60, rileggendo gli interventi dei politici che, durante le campagne elettorali, illustravano le proprie idee su come affrontare quel rallentamento della crescita che si stava delineando.
Gli anni ’70 furono un decennio molto difficile, dal punto di vista economico e sociale. Non solo in Italia, dove si spensero del tutto gli echi del boom economico e dove, dopo un’ondata di maggior benessere, iniziò una crisi che pose fine a quel sogno. Anche in Europa si interruppe quel periodo chiamato “Trentennio glorioso”, in cui, sin dal dopoguerra, l’economia europea crebbe al ritmo annuo del 4.5% medio.
Una continua crescita basata sul modello fordista, affermatosi all’inizio del secolo negli Stati Uniti d’America, che consisteva in un’organizzazione scientifica del lavoro e nel massiccio utilizzo di tecnologie come la catena di montaggio, che incrementava la produttività, abbassando i costi, gli sprechi di tempi e di energia, limitando al minimo indispensabile i movimenti degli operai e aumentando loro gli stipendi. Un’organizzazione del lavoro messa a punto dall’ingegnere e imprenditore Frederick Taylor e applicata poi da Henry Ford, per la produzione di automobili, specialmente per favorire una produzione e consumo di massa. Quest’ultimo era favorito, grazie all’introduzione di nuovi mezzi di comunicazione di massa, come la tv, da un uso massiccio della pubblicità.
Elemento fondamentale fu anche l’intervento statale nella pianificazione economica e nella costruzione dello stato sociale. Un intervento che si basava sulle teorie di John Maynard Keynes, secondo cui il libero mercato, da solo, non riesce sempre a mantenere alta la domanda di beni e quando questo non avviene, si verificano crisi, evitabili con interventi dello Stato volti a sostenere la domanda. Altri fattori fondamentali della crescita economica, furono la rapida ricostruzione dell’Europa grazie agli aiuti americani del piano Marshall, il sistema di libero scambio nella Comunità Economica Europea, la stabilità data dal sistema monetario internazionale a cambi fissi stabilito dagli accordi di Bretton Woods del ’44, secondo i quali le valute degli stati aderenti potevano essere convertite in dollari, mentre questi ultimi in oro, e la disponibilità di fonti energetiche a prezzi bassi. E furono proprio questi ultimi due fattori a venir meno, facendo crollare le basi del Trentennio Glorioso.
Ma cosa successe? Perché l’economia andò in crisi all’inizio degli anni ’70?
Il maggior benessere, l’aumento dei redditi e, quindi, del tenore di vita che nei due decenni precedenti avevano avvantaggiato l’Occidente avevano, tuttavia, nascosto i limiti di quello sviluppo, tra cui l’inflazione, la crescita del divario tra paesi ricchi e paesi poveri e, all’interno dei singoli paesi, tra gli stessi cittadini ricchi e poveri. Inoltre, la crescita demografica e l’inquinamento industriale stavano sollevando sempre più dubbi sulla compatibilità ambientale di quel sistema. Aspetti, questi ultimi, che vedremo più avanti, quando parleremo delle nuove tematiche che si impongono nel dibattito politico e dei disordini sociali che caratterizzano gli anni ’70.
Ci soffermiamo, oggi, sull’economia e, in particolare, sui due avvenimenti che chiudono “l’età dell’oro” dell’Occidente, altra espressione con cui vengono definiti i decenni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale.
Il primo di questi due eventi è la fine degli accordi di Bretton Woods, voluta dal presidente statunitense Richard Nixon nel ’71, dopo che la guerra in Vietnam e le politiche di welfare avevano provocato un forte incremento della spesa pubblica statunitense. Ciò provocò una crisi del sistema economico a cui si rispose con l’emissione di dollari. L’assottigliamento delle riserve auree e il conseguente maggior indebitamento statunitense fu alla base della decisione di Nixon di interrompere la convertibilità in oro del dollaro.
Una decisione che non poteva non avere conseguenze per gli altri paesi, come l’Italia, che sin dal dopoguerra, erano sempre stati economicamente legati agli Usa e che, grazie al rigore imposto a Bretton Woods, avevano contenuto l’inflazione. Caduto il sistema nato nella località del New Hampshire, per le monete degli altri stati interessati, come la lira italiana, iniziò un periodo di forte svalutazione e, quindi, di inflazione. Situazione a cui gli stati europei tentano di rispondere, con l’accordo di Basilea del ’72, con il Serpente Monetario Europeo, un sistema a cambi fluttuanti che, tuttavia, non riuscì a dare i risultati sperati, specialmente a causa del secondo shock dell’economia occidentale: la crisi energetica del ’73, vero apice della crisi economica, che fece venir meno la disponibilità di fonti energetiche a basso costo, fattore fondamentale dello sviluppo dei decenni precedenti.
Una crisi scaturita dalla decisione dei paesi arabi esportatori di petrolio, riuniti nell’Opec, di aumentare del 70% il prezzo del combustibile fossile, unita ad embarghi e ad una forte restrizione delle quantità di greggio esportate. Una decisione atta a colpire i paesi occidentali sostenitori di Israele (Usa in primis), in occasione della guerra del Kippur (ottobre ’73), che vide Egitto e Siria, all’attacco dello stato ebraico. Il colpo all’Occidente ci fu e fu forte.
L’Italia affrontò, per la prima volta una recessione, a cui fece seguito l’incremento della spesa pubblica e un maggiore indebitamento. Un’instabilità economica che si accompagnò, di conseguenza, anche l’instabilità politica, di cui già a fine anni ’60 si iniziarono a vedere i sintomi. Iniziò il periodo della stagflazione, un’unione di stagnazione economica ed inflazione. La disoccupazione ritornò a livelli simili a quelli del secondo dopoguerra. Anche il mondo del lavoro ne risentì, dato che iniziarono a venir meno molte garanzie conquistate nella stagione precedente e tornarono forme di lavoro precario che si ritenevano scomparse. Anche l’azione dei sindacati fu indebolita dalla situazione economica, che sottraeva loro forza contrattuale. L’Italia fu colpita duramente, sperimentando grande disavanzo della bilancia commerciale e drastica inflazione.
A ciò si aggiunsero i cambiamenti strutturali dell’economia, che penalizzarono il Sud. Dagli anni ’70, con l’avvento della società postindustriale, la rilevanza dell’industria iniziò a calare a favore di un’economia basata sui servizi, sul settore terziario. Ma, mentre nelle regioni settentrionali, la terziarizzazione si verificava in un’economia che aveva già raggiunto un’industrializzazione matura, nel Sud Italia, alle prese con un’industrializzazione tardiva e ancora incompleta, si ebbero pesanti ripercussioni, venendo interrotta quella strada, appena intrapresa, verso una convergenza con il Nord. Aumentarono, invece, le divergenze tra le due parti della penisola. Aumentarono le diseguaglianze tra le regioni. Rallentò la realizzazione di nuove infrastrutture nel Meridione, rispetto agli anni precedenti, e aumentò la disoccupazione, soprattutto tra i giovani.
La crisi energetica ebbe pesanti ripercussioni anche nella vita quotidiana dei cittadini occidentali ed italiani, costretti a subire forti restrizioni, stabilite dai governi per far fronte al minore approvvigionamento energetico. Gli italiani sperimentarono, dopo un ventennio caratterizzato dall’aumento del benessere, una stagione di austerità, con politiche spesso invise alla popolazione.
«Per quest’inverno, il problema del riscaldamento può essere risolto in una sola maniera: comperando una maglia di lana».
Inizia, infatti, così, riportando le parole del direttore di un’azienda di imbottigliamento del gas ferma da giorni, un articolo sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 5 dicembre 1972, che descrive la situazione del territorio di Bari e provincia, a poche settimane dalla decisione dei paesi dell’Opec. Una situazione di estrema difficoltà, causata dalla carenza di gas e cherosene e dalle notizie contrastanti che giungevano: «Con le scorte attuali, secondo alcuni dirigenti di aziende, si potrebbe tirare avanti massimo fino a Natale. […] Le aziende stanno attuando una specie di autorazionalizzazione, ma anche limitando i consumi ai soli usi domestici, si arriverà al massimo fino a Natale. […] Manca il greggio, le raffinerie non lavorano. […] Alcune aziende sono scomparse dal mercato. Tra queste la società campana che, l’estate scorsa, mise sul mercato bombole a prezzi stracciati, che, per diverso tempo, specie a Bitonto, misero in crisi gli altri produttori. Oggi, a Bitonto, la gente comprerebbe a qualsiasi prezzo, ma di bombole non ce ne sono».
Diverse le iniziative messe in campo per razionalizzare il consumo energetico, a partire dai limiti all’uso delle automobili, la cui diffusione era stata il simbolo del boom economico. Ma non solo: limitazioni del riscaldamento nelle abitazioni, dell’illuminazione di uffici, negozi, locali, teatri, cinema, programmi televisivi. Si limitò anche l’illuminazione pubblica per le strade.
Misure poste in essere dal governo Rumor, che portarono anche alla decisione di istituire le “domeniche a piedi” e, poi, i primi esperimenti di circolazione a targhe alterne. Iniziative per limitare la circolazione delle macchine e promuovere l’uso di mezzi alternativi, come le biciclette, risparmiando, quindi, carburante. Dopo un’epoca fondata sul mito dell’automobile per tutti, dell’automobile come sinonimo di modernità, gli europei e gli italiani sperimentarono giornate in cui, per legge, si circolava a piedi, in bicicletta, con mezzi pubblici o, al massimo, a targhe alterne.
Furono i primi esperimenti di natura ecologista, le prime teorizzazioni del concetto di mobilità alternativa. In realtà, ebbero vita breve e durarono fino alla tregua concessa dai paesi arabi. Ma furono comunque il segnale dell’inizio di un’epoca in cui, come vedremo, la tematica ambientalista iniziava ad entrare sempre più con insistenza nell’arena politica.
Tra le conseguenze negative della crisi in atto, ci fu anche l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. Una situazione che, unita all’austerity, non poteva che alimentare anche una crisi sociale e politica, e porre le basi per una successiva crisi dei principali attori della vita politica italiana.
Vedremo in seguito tutto ciò, limitandoci, nella prossima puntata, a vedere come le economie occidentali provarono a rispondere a questa crisi che non fu solo economica, ma che fu anche una crisi della democrazia.