Le elezioni del ’76 furono le elezioni del tanto temuto o tanto desiderato, ma irrealizzato sorpasso dei comunisti sulla Democrazia Cristiana. Le regionali e provinciali dell’anno precedente avevano visto una flessione dei consensi per la Democrazia Cristiana a vantaggio del Partito Comunista Italiano, avvantaggiato dall’estensione del diritto di voto ai ragazzi dai 18 ai 20 anni e dalle vittorie ottenute nei primi anni Settanta sul fronte dei diritti dei lavoratori. I cattolici, invece, avevano visto i propri consensi flettersi e la sconfitta al referendum sul divorzio del ’74 ne aveva già dato una dimostrazione. La vittoria del No all’abrogazione fu, per la Dc una dolorosa e preoccupante sconfitta. E quindi temettero seriamente che, nel ’76, il Pci potesse prendere più consensi.
Per le strade, la situazione politica e sociale italiana era molto calda e tendeva a peggiorare. Dal punto di vista economico, le conseguenze dello shock petrolifero del ’73 continuavano a farsi sentire pesantemente, mentre, sul lato strettamente politico, la VI legislatura, iniziata con le elezioni del ’72, era stata caratterizzata da una profonda instabilità e dalla litigiosità delle forze politiche di maggioranza e tra le correnti della stessa Dc. Sin dalla prima metà del decennio si alterarono al potere due correnti della Democrazia Cristiana: quella di sinistra, guidata da La Malfa e Rumor, e quella centrista, di cui Andreotti e Cossiga furono i massimi esponenti. Si avvicendarono, dunque, governi di centro-sinistra, con la partecipazione dei Socialisti e dei Socialdemocratici, e governi centristi che poggiavano sull’alleanza della Dc con i repubblicani e i liberali.
Ma, nonostante i timori e gli entusiasmi intorno al possibile sorpasso, a vincere l’appuntamento elettorale fu comunque la Democrazia Cristiana, se pur con un aumento dei voti per i comunisti, che, già dal ’73, avevano iniziato a tracciare una nuova strada per il loro partito: quella del “compromesso storico”.
Si trattava di una nuova via pensata da Enrico Berlinguer, diventato segretario del Pci nel ’72, dopo il drammatico golpe cileno del ’73, quando il generale Augusto Pinochet, con l’aiuto delle forze reazionarie locali, dell’esercito e degli Stati Uniti, rovesciarono il governo democraticamente eletto di Salvador Allende, imponendo al paese sudamericano una feroce dittatura militare. Berlinguer ne parlò in un saggio dal titolo “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile“, che fu pubblicato in tre articoli sulla rivista settimanale “Rinascita”, tra il settembre e l’ottobre del ’73, proprio a commento dei fatti cileni.
La volontà del segretario era quella di proporre alla Democrazia Cristiana una collaborazione di governo che avrebbe posto fine alla conventio ad excludendum verso il Pci, che, in termini di consensi, era il secondo partito italiano dal governo, ma che era escluso da coalizioni di governo per il rifiuto di Dc, Psdi, Psdi, Pli e Pri, di permettere ruoli governativi ad un partito che aveva forti legami con l’Unione Sovietica. Berlinguer, con il cosiddetto compromesso, voleva prevenire il rischio che anche in Italia si verificasse una svolta autoritaria. Un timore, questo, che era presente nella società italiana già dagli anni ’60, quando il Piano Solo e l’attentato di Piazza Fontana a Milano avevano dato il via alla strategia della tensione.
E fu proprio per convincere le controparti politiche dell’indipendenza dei comunisti italiani dall’Urss che, nei suoi interventi pubblici, il segretario sardo sottolineò spesso la sua idea di un partito comunista che fosse una forza della società occidentale, la sua idea di comunismo che fosse, appunto, un “eurocomunismo”. E la necessità di collaborare con le altre forze popolari.
«Gli avvenimenti cileni sono stati e sono vissuti come un dramma da milioni di uomini sparsi in tutti i continenti. Si è avvertito e si avverte che si tratta di un fatto di portata mondiale, che non solo suscita sentimenti di esecrazione verso i responsabili del golpe reazionario e dei massacri di massa, e di solidarietà per chi ne è vittima e vi resiste, ma che propone interrogativi i quali appassionano i combattenti della democrazia in ogni paese e muovono alla riflessione» scrisse Berlinguer nel primo articolo del 28 settembre ‘73, auspicando una distensione nei rapporti tra i due blocchi e una coesistenza tra gli stati con diverso regime sociale: «Le forze reazionarie in molti paesi sono in grado di contenere la lotta emancipatrice dei popoli e in certi casi di infliggere duri scacchi alle forze animatrici di tale lotta».
«Dunque, anzitutto, si tratta di modificare gli interni rapporti di forza in misura tale da scoraggiare e rendere vano ogni tentativo dei gruppi reazionari interni e internazionali di sovvertire il quadro democratico e costituzionale, di colpire le conquiste raggiunte dal nostro popolo, di spezzarne l’unità e di arrestare la sua avanzata verso la trasformazione della società» aggiunse, concludendo il primo articolo con la necessità di una via italiana al socialismo. Una via che fosse democratica e che, come continuò nell’edizione del venerdì successivo del settimanale, tenesse conto dell’esistenza, in Italia, di «tutte le forze storiche (d’ispirazione socialista, cattolica e di altre ispirazioni democratiche) che erano presenti sulla scena del paese e che si battevano insieme a noi per la democrazia, per l’indipendenza del paese e per la sua unità».
«Abbiamo sempre saputo e sappiamo che l’avanzata delle classi lavoratrici e della democrazia sarà contrastata con tutti i mezzi possibili dai gruppi sociali dominanti e dai loro apparati di potere» aggiunse il politico di Sassari, condannando esplicitamente la lotta armata dei movimenti di estrema sinistra: «Ma quale conclusione dobbiamo trarre da questa consapevolezza? Forse quella, proposta da certi sciagurati, di abbandonare il terreno democratico e unitario per scegliere un’altra strategia fatta di fumisteria, ma della quale è comunque chiarissimo l’esito rapido e inevitabile di un isolamento dell’avanguardia e della sua sconfitta? Noi pensiamo, al contrario, che, se i gruppi sociali dominanti puntano a rompere il quadro democratico, a spaccare in due il paese e a scatenare la violenza reazionaria, questo deve spingerci ancora più a tenere saldamente nelle nostre mani la causa della difesa delle libertà e del progresso democratico, a evitare la divisione verticale del paese e a impegnarci con ancora maggiore decisione, intelligenza e pazienza a isolare i gruppi reazionari e a ricercare ogni possibile intesa e convergenza fra tutte le forze popolari».
Per Berlinguer, quella da seguire era una via che mantenesse la lotta sul terreno della legalità democratica, attraverso il Parlamento: «Scegliere una via democratica non vuol dire, dunque, cullarsi nell’illusione di un’evoluzione piana e senza scosse della società dal capitalismo al socialismo. Sbagliato ci è sembrato sempre anche definire la via democratica semplicemente come una via parlamentare. Noi non siamo affetti da cretinismo parlamentare, mentre qualcuno è affetto da cretinismo antiparlamentare. Noi consideriamo il Parlamento un istituto essenziale della vita politica e non soltanto oggi, ma anche nella fase del passaggio al socialismo e nel corso della sua costruzione. Ciò tanto più è vero in quanto la rinascita e il rinnovamento dell’istituto parlamentare è, in Italia, una conquista dovuta in primo luogo alla lotta della classe operaia e delle masse lavoratrici. Il Parlamento non può dunque essere concepito e adoperato come avveniva all’epoca di Lenin e come può accadere in altri paesi solo come tribuna per la denuncia dei mali del capitalismo e dei governi borghesi e per la propaganda del socialismo. Esso, in Italia, è anche e soprattutto una sede nella quale i rappresentanti del movimento operaio sviluppano e concretano una loro iniziativa, sul terreno politico e legislativo, cercando di influire sugli indirizzi della politica nazionale e di affermare la loro funzione dirigente. Ma il Parlamento può adempiere il suo compito se, come disse Togliatti, esso diviene sempre più «specchio del paese» e se l’iniziativa parlamentare dei partiti del movimento operaio è collegata alle lotte delle masse, alla crescita di un potere democratico nella società e all’affermarsi dei princìpi democratici e costituzionali in tutti i settori e gli organi della vita dello Stato. […] La decisione del movimento operaio di mantenere la propria lotta sul terreno della legalità democratica non significa cadere in una sorta di illusione legalitaristica rinunciando all’impegno essenziale di promuovere, sia da posizioni di governo che stando all’opposizione, una costante iniziativa per rinnovare profondamente in senso democratico le leggi, gli ordinamenti, le strutture e gli apparati dello Stato».
Berlinguer, nel terzo articolo del 12 ottobre, concluse la sua analisi sostenendo che «l’unità dei partiti di lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia» e che «noi parliamo non di una “alternativa di sinistra” ma di una “alternativa democratica” e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico». Il tutto per «evitare che si giunga a una saldatura stabile e organica tra il centro e la destra, a un largo fronte di tipo clerico-fascista, e riuscire invece a spostare le forze sociali e politiche che si situano al centro su posizioni coerentemente democratiche. […] La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande “compromesso storico” tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano».
Il compromesso trovò consensi nella sinistra della Dc rappresentata dal segretario Benigno Zaccagnini e dall’allora presidente del partito Aldo Moro, che pure prima delle votazioni del ’76 aveva espresso parole forti contro i comunisti.
Non trovò, invece, pareri favorevoli nell’ala destra dello scudo crociato, rappresentata da Giulio Andreotti. Non fu ben visto neanche dal Psi e da Bettino Craxi che, nel ’76, era diventato segretario del partito. I socialisti temevano, infatti, di essere spinti sempre più ai margini dell’arena politica italiana, specialmente dopo i deludenti risultati elettorali di quell’anno. Era contrario al compromesso il Partito Radicale.
E non era voluto neanche dalla sinistra extraparlamentare. Senza arrivare ai gruppi armati, giova menzionale quel che scrisse Enzo Modugno che, ricordiamo, fu tra i promotori del Movimento del ’77: «Il “compromesso storico” stava facendo lo stesso sporco lavoro, stava pian piano distruggendo la vecchia classe, per produrne una nuova da consegnare, opportunatamente disciplinata, al più sofisticato sistema di sfruttamento».
Del resto, il Pci di Berlinguer era, in quegli anni, già oggetto di critiche, da parte dei movimenti di estrema sinistra, perchè accusato di andare a braccetto con i “padroni”, di non tutelare il proletariato e di non saperne cogliere le istanze. Sotto accusa, dunque, erano anche gli appelli all’austerità di Berlinguer e il progetto del compromesso storico.
Un progetto che, comunque, fu destinato a rimanere incompiuto. A fermarlo fu la stessa pallottola brigatista che, in il 9 maggio ’78, uccise il presidente del Consiglio dei Ministri Aldo Moro.
Dopo qualche vano tentativo di riproporlo, il calo dei consensi verso il Pci e l’opposizione interna al compromesso, portarono Berlinguer a rinunciare a quel progetto, per prendere la strada dell’alternativa democratica, che avrebbe portato governi con le altre forze politiche ma, questa volta, senza la Dc.