Bitonto. Corso Vittorio Emanuele II, civico 21. 10 novembre 1963. Siamo nella “Pescara”, lo storico edificio, sede del Partito Comunista Italiano, così chiamato dai bitontini per via dell’antica esistenza, in quel punto, di un pozzo.
Un gruppo di compagni guarda in televisione una partita di calcio. Non una qualsiasi. A Roma si svolge il match di ritorno tra Italia e Unione Sovietica, per la qualificazione agli Europei dell’anno successivo. All’andata, giocata a Mosca, la nazionale azzurra ha perso 2-0.
Ancora una volta i russi sono in vantaggio, ma al 60′ l’Italia ottiene un calcio di rigore. Per tirare quel penalty che potrebbe cambiare il risultato a favore dell’Italia viene scelto Sandro Mazzola. Ma le speranze degli azzurri si bloccano nelle mani di Lev Ivanovic Jašin, il portiere della nazionale sovietica che, anche per quel miracolo, vincerà il mese successivo il Pallone d’Oro.
Quella parata significa, per l’Italia, una grave sconfitta e la mancata qualificazione ai campionati europei del ’64. Un brutto colpo per i tifosi azzurri, ma non per quei vecchi compagni che, al civico 21 di Corso Vittorio Emanuele, a Bitonto, guardano la partita. Quando le mani del “Ragno Nero” fermano la traiettoria della palla di Mazzola un grido d’entusiasmo si libera nell’aria. Si alzano in piedi e battono con forza le mani. Sono italiani, bitontini, ma il loro tifo è per l’Urss.
«Dove sono capitato?» si chiede un giovane comunista che guarda il match con loro. Appartenente ad un’altra generazione di comunisti, tifa Italia e rimane stupito di quel sentimento politico che anima i suoi compagni, così forte da influenzare ogni aspetto della vita umana, comprese passioni che con la politica ben poco hanno a che fare, come il tifo per una nazionale di calcio.
Non dirò chi è quel giovane comunista. Utilizzo l’aneddoto solo come metafora per raccontare un’era. È il 1963. Siamo in piena Prima Repubblica, la tanto vituperata Prima Repubblica. Epoca d’oro dei grandi partiti di massa, prima che un sentimento di disaffezione cominci a sorgere nel panorama politico italiano e a mettere in discussione quegli istituti, fino alla “grande slavina” (come la chiamerà Luciano Cafagna) dei primi anni ’90 che spazzerà via quei grandi soggetti politici. Il partito è ancora inteso non come uno strumento che esaurisce la sua funzione con la chiusura delle urne, qualcosa per supportare la candidatura di singoli politici in occasione della campagna elettorale, ma come l’arma con cui si conduce la battaglia politica, fattore di mobilitazione e determinazione della volontà politica. Una macchina solida, centralizzata e caratterizzata da forte gerarchia interna. Una comunità animata da forti sentimenti di appartenenza, oggetto di fedeltà assoluta, caratterizzato da una visione totalizzante, un luogo da vivere “dalla culla alla bara”, per utilizzare un’espressione di Giovanni Sartori, dove discutere delle più o meno grandi questioni, con propri mezzi di informazione e luoghi di ritrovo. Soprattutto nel mondo socialista e comunista (nel mondo cattolico, invece, questa funzione è svolta dalla Chiesa e dalle organizzazioni collaterali che in essa trovano riferimento). È uno strumento per canalizzare la partecipazione dei cittadini, interpretarne i bisogni attraverso una propria chiave ideologica e rappresentarli in Parlamento, il cuore dell’ordinamento italiano, e in consiglio comunale, la massima assise cittadina.
11 giugno 2017. Sempre a Bitonto. Si vota per il rinnovo del consiglio comunale e per scegliere chi deve essere il nuovo sindaco fino al 2022. Alla chiusura delle urne cominciano le operazioni di scrutinio. Il cui verdetto è chiaro. A vincere è la coalizione del sindaco uscente Michele Abbaticchio, formata interamente da liste civiche. Nessun partito politico è compreso in essa. I pochi che l’avevano sostenuta alle precedenti elezioni amministrative, nel 2012, sono diventati avversari, formando una coalizione di centrosinistra partitico, in alternativa a quella del sindaco uscente, che dovrebbe essere di centrosinistra civico, anche se abbraccia sia liste formate da esponenti del centrodestra, sia liste dalla poco chiara connotazione politica. Alcune create ad hoc per l’appuntamento elettorale e destinate a sparire all’indomani delle operazioni di spoglio. Lo stesso sindaco, esterno a qualsiasi esperienza partitica ed eletto cinque anni prima come outsider, al grido antipolitico di “LiberiAMO Bitonto”, prima di essere candidato dal centrosinistra, nel 2012, fu adocchiato dal centrodestra.
Da fulcro della politica, il partito politico è via via entrato in crisi. A livello nazionale come a livello comunale. «I cittadini sono stanchi di questo modo di far politica» dice qualcuno. «Sono tutti uguali» dice qualcun altro. «È un voto di protesta contro i partiti, contro la casta» argomentano altri ancora. Ma l’analisi politica più diffusa è: «Hanno tutti rotto … (i lettori aggiungano a piacimento il complemento oggetto, ndr)».
Ma al di là di questi luoghi comuni alquanto sterili, cosa è davvero successo?
Forse il popolo è davvero stanco di «questo modo di far politica». Ma allora perché simili accuse sono rivolte puntualmente contro chiunque? Persino contro coloro che si candidano contro «questo modo di far politica»? Se guardiamo bene, mai come oggi la politica si è rinnovata, si è ringiovanita e ha dato ascolto ai cittadini. Sin troppo, finendo per diventare megafono delle paure e degli istinti più bassi, privata ormai di quell’apparato ideologico che l’ha caratterizzata nella Prima Repubblica che permetteva di avere visioni a più ampio raggio. Ma la percezione, da parte dei cittadini, finisce con l’essere sempre quella di una classe politica vecchia e sorda alle istanze. Tutti, compresi gli antipolitici, finiscono con l’essere travolti dall’antipolitica, come una lama a doppio taglio che, oltre alla vittima, ferisce anche l’aggressore.