Gli anni ’70 furono un decennio cruciale, per la storia d’Italia, sotto tanti punti di vista. Ed anche per il campo della sanità. Dopo anni e anni di dibattiti e confronti, nel 1978, con la legge n.833 del 23 dicembre 1978, fu istituito il Sistema Sanitario Nazionale, mandando in soffitta il vecchio sistema mutualistico nato durante il ventennio fascista ed ereditato, se pur modificato negli anni, dall’Italia repubblicana.
Un sistema, quello esistente prima del ’78, che vedeva il campo sanitario dividersi in diversi enti mutualistici a cui le varie categorie di lavoratori, con i loro familiari a carico, erano obbligati ad iscriversi, in modo da fruire dell’assicurazione sanitaria necessaria ad ottenere le cure mediche. Un sistema, dunque, in cui il diritto alla salute era assicurato non al cittadino in quanto tale, ma al cittadino in quanto lavoratore, che con i propri contributi e con quelli versati dai propri datori di lavoro finanziava le eventuali cure necessarie. Era un sistema basato su una molteplicità di enti ed istituti che mancava di una linea guida di omogeneità, di direttive univoche che partissero dallo Stato. E non garantiva, alle diverse categorie, trattamenti omogenei, dal momento che le prestazioni differivano in quantità e qualità, a seconda di quanto pagassero, in termini di contributi, le varie categorie (commercianti, artigiani, dipendenti, ecc.). Un sistema che causava confusione, per la presenza di tanti enti mutualistici, e disparità sociali.
Il sistema fu sostanzialmente mantenuto dopo la caduta del fascismo, anche se modificato, in parte, prima nel ’58, con l’istituzione del ministero della Sanità, che vide il democristiano Vincenzo Monaldi come primo responsabile di quel dicastero, e delle casse Mutue, amministrate da rappresentanti della categoria.
E poi nel ’68, quando la legge 132, pensata dal ministro socialista Luigi Mariotti, riformò il sistema ospedaliero, trasformando in enti ospedalieri pubblici quelli che prima erano gestiti da enti di assistenza e di beneficienza. La gestione di questi nuovi enti pubblici, dunque, fu affidata, nel ’74, alle neonate regioni.
Ma la vera rivoluzione del sistema sanitario italiano avvenne nel ’78, quando il governo presieduto da Giulio Andreotti, accogliendo una proposta dell’allora ministro della Sanità Tina Anselmi, pose fine al sistema mutualistico, smantellando gli enti mutualistici e istituendo il Servizio sanitario nazionale, che avrebbe iniziato ad operare a partire dal 1980.
Una riforma spartiacque, che ebbe come proposito quello di garantire maggiore uniformità ed omogeneità alle prestazioni sanitarie, slegandole dall’ammontare delle contribuzioni. La sanità era finanziata attraverso le tasse, secondo il principio per cui i cittadini sani, percettori di reddito e consumatori di beni gravati da imposte, a pagare le cure ai cittadini che necessitano di esse. Un sistema che voleva (e vuole) assicurare la massima solidarietà ai malati, a prescindere dalla loro capacità di contribuire, nell’idea di una sanità come bene universalmente fruibile e come bene pubblico essenziale. Al governo, quindi, spettava l’onere di reperire annualmente le risorse necessarie al funzionamento della macchina sanitaria, attraverso la creazione di un Fondo Sanitario nazionale.
Nel nuovo sistema, il Servizio Sanitario Nazionale è, dunque, stando all’articolo 1 della legge 833/1978, «costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio. L’attuazione del servizio sanitario nazionale compete allo Stato, alle regioni e agli enti locali territoriali, garantendo la partecipazione dei cittadini».
Dalla legge, inoltre, «è assicurato il collegamento ed il coordinamento con le attività e con gli interventi di tutti gli altri organi, centri, istituzioni e servizi, che svolgono nel settore sociale attività comunque incidenti sullo stato di salute degli individui e della collettività», e «le associazioni di volontariato possono concorrere ai fini istituzionali del servizio sanitario nazionale nei modi e nelle forme stabiliti dalla presente legge».
Strutturato secondo un’impostazione verticale in più livelli, dal quello centrale (statale) a quello intermedio (regionale), per concludersi con quello locale (Comuni), le funzioni sanitarie di comuni (singoli o associati) e di comunità montane, erano svolte attraverso l’istituzione delle Unità Sanitarie Locali, le Usl, che rappresentavano la struttura operativa periferica di tutto il sistema e che comprendevano tutti gli stabilimenti ospedalieri presenti nel territorio di riferimento (non più considerati come enti di diritto pubblico, con personalità giuridica, ma come mere strutture delle Usl). La legge diede, inoltre la possibilità, per comuni e comunità montane, di articolare le Usl in distretti sanitari di base che garantissero la prestazione dei servizi di primo livello e di primo intervento.
La necessità di una riforma in campo sanitario era stata più volte anche oggetto di discussione in campagna elettorale, anche a Bitonto, come riportano le cronache dell’epoca. Ad esempio, già nell’aprile ’72, la candidata al Senato Margherita Bernabei, ospitata dal Partito Socialista Italiano nella sua sezione cittadina, invocò la necessità di riforme, tra cui quella sanitaria. Un dibattito che interessò tutte le forze politiche e che fu influenzato dalle dinamiche politiche dell’epoca. La legge del ’78, infatti, fu frutto di intese tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista e fu il riflesso di quella fase di dialogo tra i due partiti nota come “compromesso storico”.
La riforma, inoltre, cadde in un momento storico che vedeva, a Bitonto, il nosocomio in piena espansione. Già ad inizio secolo la struttura originaria, ubicata in quello che era l’antico convento della Chinisa (ora Chiesa di Cristo Re) aveva subito una forte espansione, continuata, negli anni ’40, con la costruzione di una nuova ala. Espansione dovuta anche alle scoperte mediche che, facendo passi da gigante, avevano reso curabili mali un tempo mortali. Negli anni ’70 e ’80 l’evoluzione della struttura si fece ancora più spedita, con la ristrutturazione di diversi reparti, come raccontò, nel luglio 2015, il “da Bitonto”: «Nel ’76 iniziarono i lavori per un’ulteriore ala. Nel ’79 fu inaugurato il Centro Dialisi, a cui si aggiungeranno il Pronto Soccorso e i reparti di Chirurgia Generale, Medicina Generale, Gastroenterologia, Ortopedia. Ostetricia e Ginecologia, Pediatria, Urologia, Otorinolaringoiatria e Fisiokinesiterapia. Senza contare gli ambulatori di Radiologia e di Analisi».
Ma la rivoluzione del Servizio Sanitario Nazionale, se pure indubbiamente positiva, unita alla crescita demografica che aveva avuto e stava continuando ad avere l’Italia in quel periodo, portò ad una domanda di salute molto più ampia e comportò per lo Stato costi maggiori per il mantenimento delle strutture sanitarie e per la necessaria specializzazione imposta dai progressi tecnologici.
Fu così che, già negli anni ’80, si iniziò ad avvertire l’esigenza di razionalizzare la spesa sanitaria. Esigenza che portò, all’inizio degli anni ’90 ai provvedimenti di razionalizzazione dei costi della sanità. Situazione, questa, alla base della lunga questione dei tagli alla sanità, che negli anni a venire sarà estremamente ricorrente nelle cronache nazionali e cittadine, vedendo un forte depotenziamento dell’ospedali bitontino.
La prima riforma avvenne già nel ’92, con la legge delega 421 del 23 ottobre 1992, che trasformò le strutture pubbliche da Unità Sanitarie Locali (USL) in Aziende Sanitarie Locali (Asl), portando nel settore sanitario, come in altri ambiti della pubblica amministrazione, logiche tipiche delle aziende private, come l’attenzione ai costi, ai risultati ed alla qualità dei servizi garantiti ai cittadini. Un processo di razionalizzazione continuato, poi, con il decreto legislativo 229 del 19 giugno 1999, firmato dall’allora ministro della Sanità Rosy Bindi.
Nell’ottica di queste nuove leggi e dei successivi piani di riordino ospedaliero fatti da destra e da sinistra, non servivano più tante piccole strutture, ma pochi grandi ospedali, più efficaci. E così, molte strutture vennero depotenziate, altre avvantaggiate, espanse, dando il via anche a lotte tra campanili che durano ancora oggi. Il nostro nosocomio, si avviò verso un depotenziamento, surclassato da strutture più moderne, più grandi, più decentrate e quindi con più capacità di espansione, sorte, nel corso del ‘900 a Bari e nei comuni limitrofi. A decretare l’indebolimento della struttura sanitaria cittadina anche l’esito fallimentare di alcune delle proposte che, nei decenni precedenti, avevano provato a dismettere l’ospedale bitontino e le strutture dei paesi viciniori, per favorire la costruzione di edifici più adeguati alle odierne esigenze.
«La prima – spiegò il “da Bitonto” – fu avanzata negli anni ’80 e riguardava la costruzione della struttura nuova sulla via che collega Bitonto e Palombaio. La seconda, più recente, mirava alla costruzione di un nosocomio sulla via vecchia per Molfetta, che avrebbe accolto i cittadini di Bitonto, Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi».