“L’autore
ha cercato pingervi uno squarcio di vita” e per questo “al vero ispiratosi” e “con vere lacrime scrisse” questa vicenda
in cui “vedrete amar siccome s’amano /
gli esseri umani”, “uomini di carne e
d’ossa” non più fantasmi letterari, sovrani, o eroi del melodramma
romantico.
Pagliacci,
dramma nato dal genio della penna di Ruggero
Leoncavallo nel tardo 800, tratta di una storia vera, almeno in qualche
parte: il padre di Leoncavallo, magistrato in Calabria, aveva giudicato e
condannato i responsabili di un delitto amoroso che aveva per protagonisti
proprio una rappresentazione comica con Arlecchino, Colombina e Gaetano,
innamorato della donna che finì stramazzato al suolo colpito dallo stesso
coltellaccio che aveva colpito la sua amante.
L’opera si apre con l’arrivo in paese dei saltimbanchi
per la festa della Madonna di Ferragosto in mezzo a suoni di tromba, grancassa,
risate e grida. Canio – Pagliaccio, il capocomico, annuncia “Un grande spettacolo a ventitré ore” e,
a un’allusione scherzosa nei confronti di sua moglie Nedda, risponde “un tal gioco
è meglio non giocarlo con me”, aggiungendo una sentenza che si curerà di
negare per il resto dell’opera: “Il
teatro e la vita non sono la stessa cosa”.
Le scene, sul palco del teatro Petruzzelli di Bari, vengono impreziosite dalla commistione
cinematografica del regista Marco
Bellocchio che fa gustare agli spettatori una quinta parete scenica fatta
di riprese quasi come fossero telecamere a circuito chiuso sull’agire dei personaggi che vivono – per l’estro di Bellocchio – in un carcere.
Tutto è corroborato dalle vesti curate da Daria
Calvelli.
Rimasta sola, dopo l’arrivo degli zampognari, Nedda è
presa dall’angoscia per la reazione di Canio, ma poi si abbandona a contemplare
il volo degli uccelli, “boemi del ciel”,
emblema del suo desiderio di libertà.
I disegni di luce, lasciati alla maestria di Giovanni Carluccio, ci fanno passare un
volo d’uccelli tra le nuvole del cielo, attraversando le ore e i colori del
crepuscolo fino al momento in cui s’incontreranno gli amanti della donna.
Tonio,
il gobbo della compagnia, le dichiara il suo amore tentando di baciarla, ma
Nedda lo respinge a colpi di frusta. Intanto è giunto Silvio, l’amante, e i due si abbandonano al sogno di fuggire
insieme.
Canio, avvertito da Tonio, li sorprende, ma Silvio
riesce a fuggire. Furente e angosciato il marito deve prepararsi alla recita.
Dopo l’intermezzo sinfonico – diretto dal maestro Giuseppe La Malfa (29 maggio 2014) – e l’emblematico “Ridi pagliaccio” nel II atto si vedono
le Maschere recitare la commedia nella piazza del paese. Grande presa scenica
ha il coro, guidato da Franco Sebastiani (e che vede tra i tenori il bitontino Giuseppe
Maiorano) e il coro di voci bianche “all’Ottava“, guidato da Emanuela Aymone – all’inizio dell’opera – funge da pubblico per il triste spettacolo che di lì a breve
andrà in scena.
Colombina attende l’innamorato
Arlecchino che cena con lei. Sopraggiunge Canio in veste di Pagliaccio, che di
fronte alla scena rappresentata sente rinascere in sé la gelosia autentica del
pomeriggio prima: scompare la finzione (“No,
Pagliaccio non son”), Canio chiede il nome del vero amane da Nedda, e al
suo diniego la colpisce con un coltello, lo stesso con cui colpirà Silvio che è
accorso in aiuto.
“La commedia è
finita”, proclama cinicamente Tonio.
A volte, quindi, teatro e vita diventano la stessa
cosa. Si fondono in unica essenza.
Commistione fra attore e uomo, fra scena e vita, tra
finzione teatrale e sentimenti autentici, danno alla scena una presa
spettacolare che anticipa di decenni il teatro pirandelliano e i tipici sdoppiamenti
dei suoi personaggi in cerca d’autore.
Abiezione morale, delitto passionale, deformazione
fisica come segno di perversione interiore, il mondo dei miserevoli teatranti,
dei guitti, dei clown truccati e abilitati ai contrasti oppositivi di apparenza
e realtà, riso e pianto, farsa e tragedia raggruppati nell’unicum dell’attore-uomo.
Proprio quando lontano dal relativismo novecentesco
che, dietro la maschera, intuirà l’inquietante presenza del nulla.