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Home » Mariotto, “Ameluk”. Storie di attori 1/Roberto Nobile, dal teatro al cinema sempre con passione

Mariotto, “Ameluk”. Storie di attori 1/Roberto Nobile, dal teatro al cinema sempre con passione

"Non solo come attore, ma come artista e intellettuale, io appartengo a una generazione che ormai sta sparendo"

Carmela Moretti by Carmela Moretti
20 Luglio 2013
in Cultura e Spettacolo
Mariotto, “Ameluk”. Storie di attori 1/Roberto Nobile, dal teatro al cinema sempre con passione
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Il miracolo più
imperscrutabile del mondo si realizza su un palcoscenico o dinanzi a una
macchina da presa.
Nel momento magico in cui si può diventare “altro”,  pur continuando a vivere una vita propria.

Roberto Nobile e Mehdi Mahdlooappartengono a due generazioni di attori che si sono fondate su valori umani e
culturali diversi. Tuttavia, ad accomunarli è il medesimo amore per il cinema.
Così, per circostanze casuali, nelle ultime quattro settimane si sono ritrovati
a condividere le gioie e le tensione del film Ameluk, che il regista Mimmo
Mancini ha girato a Mariotto.

Noi del Dabitonto abbiamo colto
l’occasione di farci svelare i segreti reconditi della loro vita professionale.
Un’intervista doppia per raccontare ai lettori tutto il fascino di una
professione che cambia negli anni, pur restando nella sua essenza immune dallo
scorrere del tempo.

Roberto,
come avviene l’incontro con il cinema? Dalla tua biografia emerge che nasci principalmente
come attore di teatro…

Sì, la maggior parte degli
attori della mia generazione nasce col teatro. Ho cominciato con un teatro un
po’ autoreferenziale, nel senso che ero io stesso autore di alcuni monologhi
che poi mettevo in scena. Ho cominciato cioè, come molti miei coetanei, con un
teatro sperimentale e con la critica alle compagnie tradizionali. Ma a un certo
punto, questa ondata di teatro sperimentale e di strada ha perso colpi perché
non riceveva più la giusta attenzione da parte della critica né delle
istituzioni. Così sono entrato in crisi. I teatri ufficiali, infatti, avevano
difficoltà a prendere me e altri attori come me, dal momento che non eravamo
conformati ai loro schemi. Allora, mi è venuto in mente di cercare di fare
qualcosa nel cinema, perché credevo che in quel mondo si cooptassero attori più
“terra terra”, più ruspanti di quanto non facesse il teatro. Da qui è nato un
po’ il desiderio e un po’ l’esigenza di entrare in un mercato di lavoro dove vi
fossero più possibilità.

Raccontaci
un aneddoto della tua carriera che ti piace ricordare.

Una volta ho girato, con
un regista americano, un film in inglese il cui tema era la Sicilia e la mafia.
L’abbiamo girato in inglese perché veniva distribuito nel mercato
internazionale, ma poi abbiamo dovuto doppiarlo per il mercato italiano. Io,
quindi, dovevo doppiare le mie battute. Premetto, però, che di tutti gli attori
che giravano questo film io ero l’unico siciliano e, quindi, originario del
luogo di cui nel film si parlava. Ma al doppiaggio mi sono ritrovato dinanzi a
uno che faceva il coach, cioè che voleva insegnarmi a doppiare in siciliano. Io,
però, ero molto restio ad accogliere i suoi insegnamenti e così alla fine hanno
trovato un altro attore che ha doppiato in siciliano le mie battute perché il
mio siciliano non andava bene. Questo per dire quanto a volte ci siano stilemi
o modalità di recitazione che impediscono all’attore di imitare la realtà.
Spesso ci si imbatte in cliché a cui bisogna conformarsi.

C’è
un film che ti ha rapito il cuore e che non ti stancheresti mai di guardare?

Difficilmente vedo un film
più di una volta. Tuttavia, amo molto lo Sceicco
bianco di Fellini. È un film che mi commuove sempre. E ultimamente, ho
molto amato un film scandinavo che si intitola Le mele di Adamo. È meraviglioso, un film girato con pochi soldi e
che consiglio a tutti perché fa sì che lo spettatore si interroghi sull’esistenza
di Dio, sul destino umano, sul perché accadano certe cose.

Cosa
significa essere attori nella nostra società? Quali sono i sogni, le speranze,
le difficoltà?

Non solo come attore, ma
come artista e intellettuale, io appartengo a una generazione che ormai sta sparendo.
Vale a dire, quella generazione che ha vissuto la propria infanzia e la propria
adolescenza senza la televisione e, quindi, con punti di riferimento sia
culturali che umani completamente diversi. Io la sera non stavo in casa a
guardare la televisione, uscivo di casa a giocare con gli amici. E, nello
stesso tempo, avevo come modelli culturali i romanzi dell’Ottocento e del
Novecento, non il cinema né soprattutto la televisione. Credo che questo cambi
moltissimo le persone e il modo di approcciarsi alla realtà. E di conseguenza
influenza la nostra professione.

Il
più grande insegnamento di vita che devi al cinema.

Ho avuto un insegnamento
strano da Ricky Memphis, l’attore che ha fatto con me Distretto di Polizia. Devo riconoscere che a me, in passato, dava
molto fastidio la mia popolarità. Forse perché l’ho avuta a tarda età e quindi
non ne ero abituato. Una giorno ero a pranzo con Richy ed eravamo costantemente
interrotti dalle persone. Questo, però, era un fenomeno che capitava più a lui,
che era un attore più conosciuto e più amato di me. Così gli chiesi: “Ma come ce la fai? Come resisti?”. E lui
mi rispose: “Queste sono le persone che
mi danno da mangiare”. È stato un grande insegnamento per me e da allora ho
davvero cambiato atteggiamento nei confronti di chi vuole un’attenzione o una
foto. Immediatamente scatta il meccanismo della cordialità.

Sul
personaggio che interpreti nel film Ameluk di Mancini, vuoi fare un commento?

Be’, è un personaggio
contraddittorio perché da una parte è il vecchio prete di provincia, ma
dall’altra ha un’attenzione per i cambiamenti e la diversità.  Questo per me è il miracolo della vita, di
cui probabilmente vuole parlare il film. Tante volte, infatti, accade che in un
posto piccolo in cui c’è un forte controllo sociale, nasca un fiore che spicca
particolarmente per la sensibilità. 

Tags: AmelukCinemada BitontoManciniMariottonobileteatro
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