Nicola Pice: una vita ricca, intensa, gratificante.
Al di là del felice ambito familiare, egli è una personalità dalla forte dimensione pubblica: professore di latino e greco per molti anni c/o il Liceo Classico “Carmine Sylos” di Bitonto, Sindaco per due mandati, dal 1998 al 2008, ancora prima Consigliere comunale e Assessore all’urbanistica.
Oggi, abbandonata l’attività politica, è Presidente sia della Fondazione De Palo-Ungaro che del Centro Ricerche di Arte e Storia, animatore a tempo pieno di ogni aspetto culturale della città. Nel frattempo pubblica libri ed è scrittore di indiscutibile valore.
Tra tutti questi ruoli, se volessi trovare un’espressione per connotare Nicola Pice, direi che egli è prima di tutto un uomo innamorato di Bitonto, la cittadina in cui è nato e vive. Ad essa ha dedicato finora studi come “Cultura dialettale e civiltà contadina. Un’indagine demologica a Bitotno” (2008) insieme a Carmela Minenna, ma anche nel 2011, edito da Palomar, “Il taccuino di Bitonto”, passeggiata letteraria tra monumenti e storia.
Nel 2013, per EdiPuglia, ha curato una edizione riveduta ed ampliata del “Lessico Dialettale Bitontino” di Giacomo Saracino.
É approdato, infine, nel 2014, con la prestigiosa Casa Editrice Laterza, al libro che viene presentato stasera, dal titolo accattivante “Bitonto è in un mare di ulivi”, titolo estrapolato da una lettera pastorale del Vescovo Luigi Bruno del 1891.
Quando scrive di Bitonto, Nicola Pice scrosta la ruggine del tempo, elimina la polvere depositata dagli anni, per ritrovare il profumo del passato che si amalgama col presente, per riscoprire il piacere di camminare nelle strade assolate, nelle viuzze in ombra, nei vicoli dove risuonano ancora gli echi degli strilli dei bambini con i loro giochi innocenti…
Nessuno come lui è rimasto così avvinghiato alle radici, all’odore, al colore, alle pietre di Bitonto, con un coinvolgimento che spesso si fa rimpianto, talora narrazione, a volte incantamento, ma anche poesia.
Egli rivendica la sua appartenenza a Bitonto, come fosse un marchio dell’anima. E la verità e la bellezza di questo libro sono, a mio avviso, proprio nel senso profondo di appartenere a tutti i luoghi di questa città, siano essi i monumenti storici, le chiese, i palazzi o la campagna col canto degli ulivi e le sue caratteristiche geomorfiche o le stradine del centro storico o i terrazzamenti di Lama Balice…
E non solo ai luoghi, ma anche ai profumi del pane fatto in casa e del bucato, ai sapori della cucina povera, agli uomini illustri e ai “volti senza storia” (cito, tra i tanti, Cìcce u Penzìire, Manuele u rèje, Mechèile Sallèje), ai riti della civiltà contadina (come la festa de “U Cristefinge” o quella di Sant’Antonio abate), alle processioni, tante, elencate in ordine di successione ( suggestiva la descrizione di quella del venerdì santo, del Cristo nero, dei SS. Medici). Parole e immagini si incontrano intorno al mito di Itaca, la terra natia…
Ma da Itaca Nicola non si è mai allontanato, eppure ugualmente ha bisogno di ritrovarla tuffandosi nel passato e riemergendo nel presente, ha voglia di sentire il sudore che impregna la terra dei laboriosi contadini, mai figure marginali nel loro faticoso vissuto e nella loro autenticità.
Questo microcosmo, di cui vengono raccontati dettagli, magari sfuggiti, profili di uomini e donne comuni e di personaggi, inquadrature di palazzi e monumenti vari, diventa il paradigma per misurare il mondo, il retroterra e il sostegno per immergersi nel flusso dell’esistenza. Ed è facile per lui raccontare micro-storie, inserite nella grande Storia, rituali legati al genuino fervore religioso, ricordi, spazi, fotogrammi e frammenti di vicende private e collettive…
Oggi Bitonto non è più quella raccontata dalla nostalgia: é arrivata la modernizzazione, con il consumismo, l’industrializzazione e la presenza incombente del mediatico e del tecnologico. Ma l’Autore non dimentica le proprie radici, teme il rischio dell’oblio, si aggrappa alle tradizioni. E, per dirla con Borges, la sola cosa che non c’è nel suo libro, è proprio l’oblio.
La memoria, spazio inviolato, emoziona e procede lenta verso la superficie dell’anima: e lì si manifesta.
Si tramuta allora in un alfabeto privato che Nicola Pice vuole condividere con gli altri.
Diceva Pasolini che la vita è determinata dalle cose che incontri e che guardi. L’Autore ha incontrato persone, letto pagine di storia, ascoltato i racconti degli avi, ripensato ai ricordi dell’infanzia e ha “guardato”…
Quanto ha guardato e riguardato! la Cattedrale di luce e di incenso, via Maggiore con i palazzi Abunquerque e Grottola, via Planelli “una sorta di ponte tra le persone nel tempo”, le architetture religiose del ‘600, le numerose Chiese, il mare di S.Spirito… E quando dico “guardato” voglio dire anche “considerato, esaminato, studiato, ammirato, protetto, curato”.
In questo libro non vengono trascurati i riferimenti ai grandi eventi (come la Rivoluzione napoletana del 1799 o la Guerra di Successione Polacca), ma anche alla cronaca locale (il finanziere bruciato vivo nel 1893 o il legionario decapitato di Cifariello).
Il volume appare quasi un riparo alla virtualità della tecnologia, nella riscoperta di un tempo che la contemporaneità sembra voler negare, nella meraviglia per le opere che l’uomo ha realizzato nel passato e che, per fortuna, talvolta, sembrano aver trovato nuova vita ai giorni nostri: come il Torrione angioino, divenuto parco delle arti o il palazzo Sylos-Calò oggi sede della prestigiosa Galleria nazionale della Puglia.
Anche Piazza Cavour racconta il suo passato e il suo presente: e le coordinate spazio-temporali sono il recinto entro cui la registrazione visiva restituisce le emozioni e la profondità di un autentico sentimento d’amore per la città.
Questo libro-documento, libro-racconto, libro-invenzione ha scelto l’inchiostro e la carta in un periodo in cui la moltiplicazione di comunicazione e di immagini virtuali ha quasi polverizzato la realtà.
É, dunque, bussola etica ed estetica per orientarsi geograficamente, ma anche artisticamente ed antropologicamente, lente che riesce a svelare i segreti di una identità, perché mette a fuoco ciò che solitamente si osserva con sguardo superficiale.
Lo stile dello scrittore, ora semplice e diretto, ora fluido ed elegante, ora lirico, talvolta colorato da espressioni dialettali o da guizzi bozzettistici, si libera nell’incanto di chi sa vedere davvero…e perciò sa raccontare. La frantumazione della cronologia insegue un monologo interiore che muta le prospettive temporali e le riporta alla sua “humanitas”, ideale che lo contraddistingue e ne sottolinea la formazione classica.
Generoso di sé, fecondo di idee e del gesto etico che le sorregge, con questo bel libro Nicola Pice si rivolge al lettore, al viaggiatore, al visitatore, al turista, ma soprattutto, secondo me, alle future generazioni, perché si faccia strada nella loro coscienza l’importanza delle radici e dell’identità culturale che ne deriva…
Per riallacciare i fili di una memoria che rischia di perdersi..
Perché il presente abbia un senso. Perché, soprattutto per loro, sia possibile un futuro.