Fine lavoro di cesellatura.
Ricerca filologica e semantica che scava nel vernacolo andato.
Accorato studio d’ensemble.
Sono da sempre questi, con la verve, con la straripante simpatia che ne nasce, gli ingredienti principali dei lavori teatrali di Mariolina Rutigliano e Franco Moretti.
Opere sempre di successo, sempre massicciamente gradite al pubblico bitontino.
E’ in queste settimane di scena all’auditorium “Anna ed Emanuele Degennaro“, infatti, “Criste re fèuce e u diavue r’accòcchie“, commedia in due atti, ultima fatica del duo e dell’intero gruppo di lavoro che a loro fa capo: l’associazione teatrale “Ù trajòine“.
La Rutigliano firma testi e sceneggiatura, Moretti la regia. Auditorium gremito l’11 e il 12 gennaio.
Repliche il 18, il 19 e il 26 (si registra già il tutto esaurito; ricavato devoluto in beneficenza). Sulla platea, Mariolina Rutigliano divide la scena con un mattatore impareggiabile, uno che dalla vita al teatro non fa grandi sforzi: così come recita, egli è.
Nessun lavoro o lavorio sfianca Michele Labianca, sforzo mnemonico a parte.
Se nella vita lo vedi ora bilioso e ora simpatico fino all’inverosimile, con tanto di battutaccia al vetriolo in salsa butuntina, ebbene, così -esattamente così, ripetiamo- lo noterai ed ammirerai nelle vesti di Crescenze, compagno della “cara” consorte Ndelorate (Addolorata, ossia proprio la Rutigliano).
E anche lei: risata di qua e anche di là, mimica facciale che è un tutto dire, il lazzo, il motto giocoso, l’aria sempre della mamma ariosa e mediterranea; la mamma di tutti, pronta sia al buffetto piccato e maternalista sia all’abbraccio che emana calore e affetto.
Sulla scena, invece, Mariolina si trasforma nella bofonchiante mugliera di Crescenze, appunto: più acida di uno Yomo scaduto anni ’80. E così, il buon (?) maritino, di professione calzolaio, tira avanti tra una scarpa da riparare (sempre quella, più o meno, per tutta la durata della commedia!), moglie e “amatissima” suocera.
Ufficialmente, infatti, nella gerarchia della commedia, egli è il terzo protagonista, ridotto al ruolo sofferente, patria umana delle angherie di tutto questo mondo, del genero: “u scìnere”.
Genero di Marenecòule, “la nonònne”, personaggio che sembra fatto per entrare e uscire dalle quinte solo per esprimere, con aria sdegnata, fiele e disistima verso il marito della figlia.
Il resto lo si può immaginare.
Anche se la realtà -la realtà della finzione a firma Rutigliano- supera flaianamente ogni fantasia: diciamo la fantasia al quadrato, via.
Ecco quindi le litanie del genero perchè il cielo chiami presto l’anima della diletta suocera, le zuffe casalinghe, le incomprensioni, i piccoli e grandi guai.
Battute in rima per la gioia (spesso incontenibile: vi assicuriamo che c’era una signora, in avanti con gli anni, che rideva da chiamare l’ambulanza) del pubblico.
Ma a colpire, come si accennava al debutto del pezzo, è lo studio che c’è dietro, l’orpello in rima: non già, cioè, il mero gusto della battuta frizzante o dell’aneddoto nella lingua sagace dei padri, quanto la cura eminentemente letteraria della versione rimata, del dire e del narrare quasi come in antica canzone.
Gran parte del testo, infatti, è proprio in rima: può intendersi facilmente quanta ricerca del sorriso quasi immediato contenga in sè il ricorso a questo espediente.
Che è sia narrativo-diegetico sia comico-istintivo.
Si pensi proprio agli esilaranti dialoghi “baciati” (solo quelli, c’è da crederci!) tra moglie e marito.
Oppure alle storpiature dall’italiano tecnico di termini specifici. Un esempio su tutti: l’osteoporosi diventa “ostia pelosa”.
E la platea ride.
Ben integrati, poi, i personaggi di contorno: da Martaredde, “chère du custe”, interpretata dalla verista Giovanna Sicolo, esuberante e curiosissima -nonchè accattivante- vicina di casa di Crescenze e Ndelorate a Gelarde, suo marito, che nella vita di nome fa Peppino Muschitiello, anch’egli perfetto nella parte dell’alticcio poi però rinsavito e tornato sobrio.
Seguono, inoltre, Aronze (“u figghie de Martaredde”), Luca Martucci; don Pasquale (“u parecchiàre”), il severo Michelangelo Napoli; “u sinneche”, il baldanzoso Antonio Tenerelli (che con il sacerdote dà vita a bozzetti dal sapore guareschiano, ma legati talvolta anche alla realtà bitontina, come gli accenni al fenomeno della movida o ai balzelli fiscali hanno chiaramente lasciato intendere); “u mideche du 118”, Alessandro Marinelli; “u mbremìre”, Vito Marino; “u mideche curande”, Luigi Ursi e infine Marosceka, la bella e procace badante rumena che risveglia qualche senso e qualche (incauta?) speranza in Crescenze, interpretata dalla briosa Loredana Pierri.
Una menzione a parte meritano i responsabili delle due agenzie che fanno da presenza ricorrente durante lo spettacolo: quella funebre (con il titolare, interpretato dallo statuario Vito Cassano) e quella viaggi (anche qui con il titolare, Francesco De Palo; in più con la bravissima Marta Lovascio, l’impiegata).
Ed ecco rappresentate due evasioni dalla vita quotidiana: quella eterna, sempre scongiurata ed esorcizzata e quella del viaggio di piacere, che mai però arriverà per davvero per i nostri due protagonisti.
La scenografia dell’opera è stata a cura di Michele Labianca: un tuttofare, evidentemente. Le scene di Luigi Ursi, il service di Paolo Mancini, l’acconciatura a cura di Air Studio (di Pasquale Pice), i costumi di Anna Bonasia e il trucco di Loredana Pierri, anch’esse attrici della commedia.