Anche quella che vi raccontiamo questa settimana, cari lettori, rientra di diritto nella categoria delle tragedie dimenticate, e ogni qualvolta la domanda che sarebbe da farsi è come sia possibile.
Già, come è stato possibile che per decenni, decenni e ancora decenni si sia fatto finta di niente su quello che qualcuno chiama il piccolo Olocausto italiano? Come si è potuto girare la testa dall’altra parte su una delle più grandi stragi di minatori avvenuta in Italia? Perché si è voluto tacere sulla tragedia dei cosiddetti “carusi”, con tanto pure di cimitero?
Siamo in Sicilia, allora. Il ‘900 non è poi così distante. Questo significa che l’unità d’Italia è stata da poco compiuta, ma c’è uno Stivale, soprattutto quello meridionale, dove regna ancora un analfabetismo da percentuali bulgare, una economia ancora prettamente agricola e condizioni da lavoro a dir poco pessime, sotto tutti i punti di vista.
Ma, oltre all’agricoltura, dalla metà del XIX secolo lo zolfo è diventato uno dei materiali più redditizi per l’economia della Regione più grande d’Italia, tanto è vero i solfatari siciliani rappresentano all’epoca, ben oltre il 60 per cento della popolazione mineraria della penisola italiana.
Gessolungo, in provincia di Caltanissetta, è una delle prime solfare. Aperta nel 1839, ci lavorano centinaia di persone. Ma qui si estrae lo zolfo per poche lire, con un orario di lavoro massacrante, senza le più elementari e basilari condizioni di sicurezza e igiene, e con una altissima presenza di bambini da età da scuola elementare. I carusi, per l’appunto, vittime di un destino del quale non sono artefici, scelto per loro dalle loro famiglie che li vendono in cambio di un prestito tra le 100 e 150 lire. La somma viene erogata immediatamente, ma deve essere restituita nel tempo con il lavoro del fanciullo.
Il contratto, definito “soccorso morto”, è impossibile da rispettare. Durante la giornata i bambini percepiscono pochi centesimi e qualche derrata alimentare, e sono trattati come schiavi praticamente. Se non si impegnano sono picchiati e insultati. Sono costretti a scendere nelle viscere della terra a temperature elevate, che sfiorano i 50 gradi. Per il troppo caldo lavorano nudi e sulle loro spalle caricano cesti di vimini colmi di zolfo pesanti anche 25 chili.
I numeri dei carusi fa rabbrividire, perché negli anni ’80 del 1800 sono oltre 8.700.
E, non è un caso, che la tragedia di Gessolungo si consuma in questi anni. È il 12 novembre 1881. Come ogni mattina, 250 solfatari stanno scendendo sottoterra, ma non fanno i conti con una fuoriuscita di grisù che causa una fortissima esplosione. A innescarla è una lampada ad acetilene, un gas estremamente infiammabile. La deflagrazione uccide 65 minatori, mentre 35 rimangono feriti. Quando arrivano i soccorsi non c’è più nulla da fare.
Tra le vittime, non si fa fatica a immaginarlo, non ci sono solo adulti, perché l’esplosione fa saltare in aria anche 19 bambini, di cui ben nove sono ancora senza un nome e un cognome. Hanno tutti tra i sei i 14 anni di età. Riposano in un cimitero ad hoc proprio nelle vicinanze della miniera.
In quella miniera della morte, chiusa soltanto nel 1986, un’altra tragedia si consuma nel 1958, portandosi con sé 14 lavoratori.