La sua storia è stata ripresa, qualche giorno fa, anche dal “Fatto quotidiano” dal giornalista sportivo Paolo Ziliani.
E, diciamo la verità, ha fatto bene. Perché ci sono certe biografie, talune situazioni, e tante vicende umane che non andrebbero mai perse di vista. Soprattutto se è figlia di quella metafora di vita che si chiama calcio.
Troppo facile, oggi, ricordare, chi svolazza tra i tre legni che delimitano quel bersaglio grosso dove far rotolare la palla. Assai più complicato, invece, ricordare chi sono i loro secondi, i cosiddetti dodicesimi, che devono accontentarsi di qualche apparizione nelle competizioni minori o nelle amichevoli estive.
E, fidatevi, nel mondo del pallone di 30-40 anni fa era un’impresa ardua. Semplice elogiare Dino Zoff, Stefano Tacconi, Walter Zenga, Giovanni Galli, Franco Tancredi. Peggio di una vincita al Superenalotto ricordare chi fossero i loro secondi.
Proprio per questo, allora, Ziliani ha fatto bene. Perché ha trattenuto l’attenzione di giovani lettori e non su un gregario per eccellenza. Seduto a lungo in panchina nella vita calcistica, ma in prima, primissima fila quando si tratta di aiutare gli altri.
Astutillo Malgioglio, allora, nonostante l’esordio in serie A a soli 10 anni, l’aver vestito tutte le maglie delle Nazionali giovanili a 21 anni, una carriera – è vero, vissuta il più delle volte in panchina – tra Brescia, Pistoiese, la Roma di Nils Liedholm finalista di Coppa Campioni e di Eriksson, la Lazio e l’Inter di Trapattoni con cui vince scudetto e coppa UEFA, per terminare all’Atalanta -, non è stato un supereroe tra i pali, ma fuori sì e, al contrario di tanti suoi colleghi, di ieri e di oggi, non perde la bussola dietro lauti compensi e gloria effimera. E più che rivedersi nelle immagini in tv, gli piacevano i racconti di sua nonna Ines, che parlava a tutta la famiglia riunita di guerra e di vita.
Ma impiega il suo mestiere, i suoi guadagni, la sua fortuna di appartenere a un mondo dorato, per aiutare chi è stato segnato dalla vita, quei bambini distrofici il cui mondo ha conosciuto nel 1977. E pure con queste parole: “Avevo 20 anni quando, titolare del Brescia in serie B, visitai per la prima volta un centro per disabili distrofici. Mi impressionò la loro emarginazione, il menefreghismo della gente. Mi sono specializzato nello studio dei problemi motori dei bambini e col primo ingaggio ho aperto Era 77. Offrivamo terapie gratuite”.
Già, Era 77. È l’acronimo del nome personale, della moglie e della figlia, ed è un centro creato a Piacenza per il loro recupero motorio, nel quale acquista a spese sue macchinari e offre cure gratuite.
Inizia la sua seconda vita, allora, perché nel tempo che gli rimane dalla carriera calcistica, diventa educatore – gratuitamente – di bambini disabili, laureandosi pure in Medicina.
Pensate, cari lettori: un calciatore laureato. Dove esistono oggi? Quasi una offesa parlare di cultura nel mondo dei miliardi.
Questo, però, gli ha causato una marea di problemi, un continuo isolamento e pure più di qualche insulto.
Proprio in quel Brescia, infatti, è messo fuori squadra, ma alla Roma, fortemente voluto proprio da Liedholm, gli è messo a disposizione il centro di Trigoria per continuare il suo lavoro sui bambini disabili.
Lì, nella Capitale, ben presto finisce sull’altra sponda del Tevere, quella biancoceleste, per volontà di Luigi Simoni. Dove mai avrebbe immaginato di trascorrere uno dei suoi momenti più brutti di sempre. I tifosi non gli perdonano il passato giallorosso e il dedicare più tempo alla vita fuori dal campo che a quella in quel rettangolo verde.
”Se pensi ai tuoi amici handicappati, quando pensi alla Lazio?” è il refrain più corrente. Le minacce alla famiglia sono all’ordine del giorno, con cori e striscioni (indimenticabile quello che recita “Tornatene dai tuoi mostri“). Lui sopporta di tutto (è un “hombre vertical”, lo ha definito Luis Enrique), ma in occasione di Lazio-Vicenza, con lui che è il peggiore in campo, agli ennesimi insulti e bestemmie, si toglie la maglia, ci sputa sopra, la getta a terra e la calpesta. E, per favore, non paragoniamolo al Mario Balotelli che butta sul terreno verde la maglia dopo la sfida di Champions contro il Barcellona nell’aprile 2010.
La carriera in biancoceleste finisce lì, naturalmente, e lui pensava anche quella sportiva. No, non è così, perché a uno così la vita doveva riservare un’altra occasione. E infatti, mentre a Piacenza a occuparsi del centro, riceve la chiamata di Giovanni Trapattoni, che lo vuole fortemente come vice dell’”Uomo Ragno” Walter Zenga. È il 1986. Rimarrà in nerazzurro cinque stagioni, per vincere uno scudetto (1989) e una Coppa Uefa (1991), e ricevere un assegno da 70 milioni dal compagno di squadra Jùrgen Klinsmann, dopo che questo tedesco di Germania lo aveva seguito per capire cosa facesse davvero nel tempo libero. Nel 1992, poi, dopo una breve parentesi all’Atalanta, appende i guantoni al chiodo anche a causa di non pochi problemi fisici.
Quando si ritira, però, è ancor più solo, dimenticato, ignorato, per lo più con problemi economici talmente grandi da costringerlo a chiudere il centro.
Ma, aiutato solo dalla inseparabile moglie Raffaella, oggi lavora ancora per chi ne ha davvero bisogno. “Perché, come dice il mio padre spirituale, le mani bisogna sporcarsele, mettendole anche nella m…”.