Lui è ancora lì che fa la triste spola fra l’ospedale e la stazione, in attesa di una cura per l’anima o di un treno che lo porti chissà dove.
I vestiti, ormai, gli piovono malinconicamente sul corpo rinsecchito dal nulla che riempie la sua vita.
Sotto il braccio, il solito fagotto di robe donate da qualcuno di buon cuore e appallottolate alla meno peggio.
Lo zainetto, purtroppo, glielo hanno rubato una sera, in chiesa.
Dorme ancora su una sedia di plastica di qualche ambulatorio, ma una notte che s’adagiò su una panca, sorpreso dal freddo, per ripararsi si raggomitolò nel gazebo di un bar.
A. non ha casa, non ha famiglia, non ha lavoro, non ha vita. Spesso, stupisce il fatto che rifiuti anche il danaro che mani pietose e frettolose gli porgono.
Ti parla stancamente con occhi spenti di ogni speranza: “Ho sbagliato e ho pagato tutto, anche per colpe non mie. Vorrei solo recuperare la mia dignità, la minima dignità di un essere umano, se avessi un posto dove solo riposarmi, lavarmi e persino andare in bagno, poi potrei dedicarmi al lavoro e alla preghiera come vorrei. Non ce la faccio più, alcuni mi aiutano per davvero, molti però mi prendono solo in giro. Una mattina, dopo tre notti che non avevo chiuso occhio, ho passato ore a strappare erbacce da un campo e mi hanno pagato dieci euro. Vi prego, aiutatemi“.
Le parole, scandite senza più forza, sprofondano nel vuoto d’amore e di solidarietà che, ogni tanto, questa città esprime, pur splendente di feste e lustrini…