Quarantatré anni fa, si spegneva la generosa, lucente e non sempre felice esistenza di Michele Genovese in arte (sublime) Piripicchio. Allegria vera del popolo, sberleffo caustico che tutti allietava, sorriso che smemorava degli affanni: tutto questo e tanto altro è stato Michele, che visse il suo tramonto male in arnese. Altre città hanno dedicato una via alla sua umile grandezza, antica e moderna insieme. E allora, noi ci riproviamo: perché Bitonto non intitola una strada – chè quella era il suo quotidiano palcoscenico – a questo fantasista della comicità? Intanto, pubblichiamo un al solito prezioso, significativo scritto del professore Nicola Pice, di qualche anno fa.
“Ricordare a più di quarant’anni dalla morte Michele Genovese, in arte Piripicchio, nato a Barletta e morto a Bitonto, significa fare memoria di un’umile figura di un artista di strada che, mentre la nuova Italia repubblicana si andava faticosamente costruendo, in un periodo di vita sociale in cui le occasioni di distrazione erano rare, girava per le nostre città e i nostri paesi regalando ad un pubblico di ogni età la sua malinconica allegria: un uomo in frac, non di nobile ascendenza, ma di estrazione popolare, che con una bombetta per cappello, un bambù per bastone, con quattro stornelli macchiette barzellette mosse, aiutava ad esorcizzare le paure residuate dalla guerra e quelle recate da un futuro piuttosto incerto. In quella figura, in quel modo di sfidare le ombre della storia, in quell’ingenuo charlottismo molti di noi si sono a suo tempo immedesimati. Lo ricordo mattiniero allo sbocco di via Maggiore ad osservare il lungo codazzo di giovani studenti che si portavano alle scuole di Santa Teresa, indifferenti al suo sguardo che cercava un po’ di comprensione e di considerazione. Il suo silenzio assordante in mezzo al vociare confuso, allegro e spensierato dei liceali, un’attenzione negata per un artista di strada che avrebbe meritato maggiore fortuna da parte di una società troppo rumorosa e aggressiva, troppo noncurante della semplicità e della umiltà di una maschera comica, povera di fortuna, ma ricca di umanità, perché né rozza né stracciona. Ed oggi, mentre lo rivedo statuina di creta tra i miei libri, mi pare di riascoltare il suo festoso pàra zipùm zipùm zipèra pàra zipùm zipùm zipà…”.