«Voglio conoscere la verità, anche se sono passati 19 anni. Voglio la verità, per ridare dignità alla mia famiglia, ai miei genitori accusati ingiustamente. Chi ha ucciso Mirabela dovrebbe chiederci scusa e pagare per quel che ha fatto», è questo lo sfogo di Maria Rafailà, sorella di Mirabela Rafailà. La bimba che, ad appena sette anni, fu tragicamente uccisa il 13 novembre 1999 e ritrovata mummificata quattro mesi e mezzo dopo, chiusa in una brandina in campagna a poco più di 200 metri dal luogo della sua scomparsa (leggi qui la ricostruzione dei fatti).
Aveva appena undici anni Maria all’epoca dei fatti e questa per lei, per le sue sorelle, suo fratello, i suoi genitori, è rimasta una ferita enorme. Quando ci incontra, in una assolata mattinata di dicembre, i suoi occhi cominciano a riempirsi di lacrime, che mescola ai suoi dolci sorrisi, ricordando anche i momenti di gioco e letizia con la sua piccola Mirabela.
«Era una bambina molto timida, credeva molto in Dio ed era affezionata alla famiglia. Le piacevano le bambole ed era estremamente generosa. Nonostante la tenera età, era pronta a dare tutto per far felici gli altri, mi manca moltissimo – ritrae così la sorellina, Maria -. Chiedevamo l’elemosina ogni giorno al mattino, poi il pomeriggio fino alle 16: avevamo imparato a riconoscere le auto, i volti, alcuni li chiamavamo anche per nome. Se non ci davano qualcosa, ci eravamo persino inventate il “registro” dei buoni e dei cattivi», sorride.
«Papà ci accompagnava sempre a chiedere l’elemosina la mattina – racconta Maria – ma quella mattina andammo da sole, io, Mirabela e Dorina, perché i miei erano con l’altra mia sorella che era stata ricoverata in ospedale e sarebbe stata operata di peritonite proprio in quei giorni. Avevamo mangiato un panino poco prima e, dopo un’oretta che eravamo al semaforo, all’incrocio tra Bitonto e Palo, io e Dorina ci allontanammo per dei bisogni, non molto lontano, dietro un muretto. Mirabela rimase lì sola qualche minuto e al nostro ritorno non c’era più. Al suo posto, per terra, ritrovammo una striscia di patatine… come se fosse stata trascinata via da qualcuno. Quel giorno c’erano anche dei marocchini, ma erano cinque contrariamente dagli altri giorni: quando tornammo ne mancava uno. Pensammo subito che loro sapevano dove potesse essere nostra sorella, ma ci diedero delle informazioni contrastanti: uno diceva di averla vista andare verso Palo, l’altro verso Bitonto. Pensammo anche che, magari, uno di loro – magari proprio l’elemento “nuovo” del gruppo che al ritorno non c’era più – avesse potuto portare nostra sorella da qualche parte o che, magari, fosse stato ingaggiato da qualche italiano per portare via la piccola».
«Alla prima cabina telefonica mi fermai per chiamare immediatamente papà: Mirabela non era nemmeno con lui. Non era con lui e nemmeno dai nostri zii. Andammo immediatamente dalla Polizia, al Commissariato e ci dissero che, prima di cominciare a cercare la bambina, dovevano passare almeno 24 ore. Eravamo disperati e così cominciammo a scandagliare le campagne, guardammo ovunque e trovammo anche la sua scarpa abbandonata poco più avanti. La Polizia, poi, disse che ce la mettemmo noi. Ma come poteva essere mai possibile una cosa così?».
Le verità, le persone interrogate, le piste battute furono molteplici e nessuna finì in una direzione ben precisa. «Accompagnai la Polizia anche a casa di un signore che aveva due figlie piccoline, della mia età e una volta mi fece giocare con le figlie, mi offrirono da mangiare, mi diedero la possibilità di fare una doccia. Non sottovalutammo nessuna possibilità, eravamo disperati, ma quel signore era davvero una brava persona».
Ma, alla fine, ad essere indagati furono i genitori di Mirabela, accusati di essersi venduti la figlia per un debito contratto con il capo “tribù”: «Nella nostra etnia non esiste il capotribù, il capo è quello che costruisce il campo e noi all’epoca vivevamo in un camper blu e lì avevamo tutto, persino il fornellino per cucinare, non ci mancava niente. Poi mamma o papà non si sarebbero mai venduti un figlio. Me l’hanno sempre detto, mi guardavano (persino quando, più grande, ho avuto i miei di bambini) e mi dicevano “Maria, tu venderesti mai un tuo bambino per i soldi?”. La risposta era sempre “No”. Per noi i bambini sono sacri, doni di Dio. Io da sola, in una giornata, grazie alla mia simpatia, al mio essere molto chiacchierona, riuscivo a portare a casa anche 500 mila lire: ai tempi erano tanti soldi. Avessimo avuto un debito, potevamo serenamente ripagarlo».
Invece, non andò così. I genitori furono portati in Commissariato con una scusa: «Ci dissero che avevano trovato Mirabela e che mamma e papà dovevano andare a riconoscere il corpo. Era una bugia, dovevano arrestarli. Dopo vennero a prendere anche noi dal campo, me e i miei due fratelli, per portarci in Commissariato perché ci avrebbero affidati ad una comunità. Ricordo bene che venne anche mia zia con noi, perché avevano paura che non fosse la Polizia, visto che erano vestiti con abiti borghesi, e magari volevano portare via anche noi. Una volta in ufficio, sentivo mia madre che urlava il mio nome e feci di tutto per oltrepassare il poliziotto davanti alla porta, passandogli tra le gambe. Mi bloccò. Io, sbagliando, gli dissi una parolaccia, ma mi guardò negli occhi e disse una frase che non dimenticherò mai: “Tu tornerai a casa e non dimenticherai più questa scena, queste urla, io invece tornerò a casa, vedrò la mia famiglia, e dimenticherò tutto”. Come si può dire una cattiveria così ad una bambina di undici anni? Ci ho pensato sempre ed effettivamente è stato così, non ho più dimenticato».
«Fu scritto pure che i miei genitori erano impassibili, che non piangevano, che non erano empatici con quello che ci stava accadendo e per questo pensavano fossero colpevoli. Ma il dolore che si prova nel cuore lo conosce soltanto Dio. Anche a me è morto mio marito – dice ancora Maria – e avevo quattro figli, uno ancora in grembo, e non riuscii a piangere nemmeno una lacrima. All’epoca di mia sorella cosa avremmo dovuto fare? Piangere a comando appena arrivavano i giornalisti? Nessuno è mai venuto qui a sentire in realtà cosa stavamo provando. Nessuno prima di voi è passato di qui per sapere come stavamo dopo che ci avevano sottratto i genitori per un anno e sette mesi. Eravamo piccoli e siamo rimasti senza sorella e senza mamma e papà. Mamma in carcere fu picchiata, papà finì in isolamento perché davvero in carcere pensavano che avesse venduto mia sorella. Riuscivamo a malapena a sentirli per telefono ogni tanto, grazie alle suore».
Per non parlare delle conseguenze. «Papà ha vissuto forti stati depressivi, un brutto esaurimento nervoso, mamma è molto malata, soffre di diabete, fa l’insulina e probabilmente dovremmo anche operarla per altre patologie».
Al lamento straziante di Maria fa eco anche la voce assordante per quanto dura di Dorina che fino a qualche minuto prima ci aveva ascoltato da lontano mentre preparava il pranzo per i nipotini, spazzava e metteva a posto la baracca. «Nessuno si è mai chiesto perché è morta mia sorella, nessuno sa come abbiamo vissuto il nostro lutto, nessuno sa della mia lunga bulimia e dei miei stati depressivi», tuona Dorina.
E Maria continua, provando a trattenere le lacrime: «Io non l’ho vista mia sorella quando fu ritrovata. Mamma diceva che aveva il volto devastato, il corpo bianchissimo come se le avessero tolto il sangue. Ma io, non avendola vista, mi sono sempre detta che non fosse vero, che non era lei, non ho mai accettato che fosse lei nemmeno quando era in quella piccolissima bara bianca. Volevo ricordarla con quei suoi minuscoli ricciolini neri, il volto candido e gli occhi neri e vispi».
Ci riaccompagna all’ingresso del campo, la sorella di Mirabela, e la sua bimba più piccola le corre dietro, piangendo perché pensava stessimo portando via la sua mamma. Così, Maria si è voltata, l’ha presa in braccio e l’ha abbracciata forte forte…