Antonio aveva pochi capelli e tante idee in testa.
Era alto e sottile, non più giovane, sembrava vivere tutto con una leggerezza incredibile.
E aveva una dote misteriosa: compariva all’improvviso.
Dopo ho capito perché.
Lo conobbi durante un soggiorno terapeutico a Tabiano Terme, ad un sospiro da Salsomaggiore: avevo da combattere l’asma, mani invisibili strette al collo quando mano te l’aspetti.
Condividevamo lo stesso albergo (Pensione Pineta, un incanto) ed era diventato subito un mito per me e mio fratello.
Lui, parmense, era lì perché cercava l’ispirazione e la concentrazione giusta fra verde smeraldo, silenzio scavante e persino palpitanti lucciole per scrivere la sua nuova opera.
Così, ogni volta che incontrava questi due impertinenti bimbi con i libri in mano (io mi stavo facendo rapire da Buzzati al Giro, Francesco da non so quale Calvino), amava narrare storie.
Di un tempo lontano e vicinissimo tanto da averlo ancora dentro.
“Sì, ero poco più grande di voi – saliva sul veliero dei ricordi e tirava su i due mozzi assetati di racconti -, ed era bellissimo stare acquattati sulle colline emiliane, in attesa di staffette e segnali convenuti. Nascosti col cuore in gola, pronti ad entrare in azione quando ce lo ordinava il comandante a noi quasi sconosciuto ma con un nome leggendario. Perché rischiare così tanto? Perché sapevamo di batterci per un ideale: la libertà. Certo, voi oggi non potete capirlo, ma era fondamentale riconquistare il diritto di esprimere il proprio pensiero, di dire la propria, di vivere, di essere sé stessi. Non avete idea di quanti compagni ci avevano rimesso la vita durante il ventennio fascista“.
“Non ci interessava nulla di quello che magari decidevano in alto e vi assicuro che c’era qualcuno che si guadagnava galloni politici, noi andavamo incontro ai rischi quotidiani col coraggio che ti danno la gioventù e il desiderio di lasciare qualcosa di grande ai posteri. Eravamo partigiani, non ci poteva fermare nessuno. E poi, quando conquistavamo terreno ai danni dei terribili nazisti, ci facevamo certe spanciate che non vi dico: salumi, formaggi e carne. Insomma, recuperavamo le forze“.
“Ah, bè, non è che tra noi fossero tutte anime buone, anzi, molte volte, quando sapevano che in un casolare abitavano camicie nere, facevano irruzione, razziavano tutto e qualche volta ammazzavano pure qualcuno. Ma gli effetti di una dittatura sono proprio questi: lasciano dietro una scia di ruggini e rancori che fanno male“.
“Sì, molti hanno fatto carriera grazie al mito della Resistenza, prendete la famiglia Berlinguer, mica sono tutte aquile. Enrico era immenso, ma gli altri, è meglio lasciar perdere. Però, quei valori, la vera bellezza della vita da assaporare appieno: la giustizia, la libertà. Resistere è esistere con una forza maggiore. Già, ma oggi che fine hanno fatto quei valori?“.
Era il tramonto degli Anni Ottanta. Lo Stivale era ancora lacerato dalle ultime scorie del crudele terrorismo, quale che fosse la sfumatura cromatica, era il Paese del Bengodi, ma presto Tangentopoli avrebbe disvelato un mondo che s’era mascherato anche di quelle caratteristiche resistenziali, strumentalizzandole.
Immaginate, oggi che tutto è corruzione, ruberia, ingiustizia, odio, che fine possono aver fatto quei costumi morali che intridevano l’anima dei ragazzi appollaiati dietro le siepi col cuore in gola.
Il 25 Aprile, ormai, è solo una “pasquetta” posticipata…