«Come sono sopravvissuto? Non ho mai, mai perso la
speranza di tornare a casa». È
così che Franco Schönheit racconta la sua esperienza nel campo di
concentramento nazista di Buchenwald, dove fu internato dal ‘43 al ‘45. Lui,
italiano di religione ebraica, reduce dall’inferno dei lager tedeschi,
insieme alla moglie, è stato ospite venerdì e sabato a Bitonto,
all’istituto Benjamin Franklyn, per incontrare i ragazzi e spiegare loro le
terribili vicissitudini vissute da lui e da tanti altri come lui. L’ha
accompagnato nella sua visita Rosa De Feo, autrice del libro “La libertà oltre il bosco dei faggi”, che ne racconta la drammatica esperienza
riscoperta solamente negli anni recenti, dopo decenni di silenzio dovuti sia
alla voglia di dimenticare e riprendere una vita normale che all’iniziale
timore di non essere creduti.
Scampa inizialmente alla persecuzione
seguita alle leggi razziali del ‘38 grazie all’amicizia della nonna cattolica
con il vescovo. Ma, morta la nonna e, dunque, venuta meno la protezione, viene
arrestato insieme ai due genitori nel ‘43. Condivide con il padre la prigionia
prima nel campo di smistamento di Fossoli e poi a Buchenwald, mentre la madre
viene mandata altrove. Si riuniranno solo dopo la liberazione.
Non parla molto volentieri di quei mesi
nell’inferno del campo nazista. Se non fosse stato per l’impegno dell’autrice
nel riscoprire la sua storia, e per l’ex presidente Napolitano che lo esortò a
raccontare, non avremmo saputo nulla della sua testimonianza. Franco, del
resto, lascia chiaramente intuire il disagio nel rivivere quei momenti. Disagio
comune a molti reduci e che per alcuni è stato come un fantasma che per anni,
per decenni, ha continuato a tormentarne gli animi già provati. Solo la
consapevolezza dell’importanza di quelle memorie spinge Franco a partecipare ai
tanti incontri che, ogni anno in questo periodo, si organizzano in tutta
Italia.
«Se veniva meno l’ottimismo, ci si lasciava andare e lì dentro ci si
moriva» ribadisce, ricordando di
come salvò, con la sua speranza, la vita di suo padre, più pessimista,
invitandolo costantemente a non cedere allo sconforto, a resistere. Anche di
fronte agli episodi drammatici a cui hanno dovuto assistere, come i pestaggi,
anche mortali, delle SS nei confronti di altri internati, magari colpevoli solo
di aver rubato un pezzo di pane, i soprusi dei Kapò, prigionieri delegati dai
soldati alla gestione del campo, che spesso erano peggiori dei tedeschi stessi,
ai compagni tornati in libertà solamente sotto forma di fumo, dopo essere stati
bruciati nei forni.
«C’era un amico di Firenze lì con me. Nella sua città aveva un
ristorante. Al contrario mio, non era affatto sicuro di uscire vivo. Così gli
feci una promessa. Gli dissi che prima o poi sarei passato dal suo ristorante,
che sarebbe stato riaperto, e avrei chiesto di essere servito direttamente da
lui. E così accadde» racconta
Schonheit di fronte al pubblico e ad un interlocutore inevitabilmente commossi:
«Mi presentai tanti anni dopo al
ristorante. Quando il cameriere venne da noi, gli dissi che desideravo essere
servito dall’uomo alla cassa. Che inizialmente non mi riconobbe. Ma quando gli
ricordai la promessa fatta a Buchenwald mi abbracciò e tutti i clienti,
intuendo la storia, ci applaudirono».
Ma nonostante quella terribile
esperienza, Schonheit si sente fortunato. In primo luogo perchè la sua è stata «l’unica famiglia ad essersi totalmente riunita
dopo la prigionia», e poi perchè,
se fossero stati trasferiti in campi più piccoli sarebbero stati in condizioni
peggiori: «I bombardamenti
americani sulle fabbriche vicino Buchenwald furono la nostra salvezza perchè
fummo inviati a raccogliere le macerie e non fummo spostati altrove».
Ma in quell’inferno Franco ricorda
anche episodi di umanità, persino da parte degli stessi soldati: «Ricordo un italiano che indossava una divisa delle
SS. Mi vide affamato e così mi portò di nascosto alle dispense dandomi del
cibo. Cominciò a farmi mille domande. Mi chiedeva cosa pensassi di lui. Gli
risposi solamente che era qualcuno che lo stava sfamando. La mia impressione è
che cercasse da me un’assoluzione per quella divisa indossata con rimorso.
Un’assoluzione che non potevo assolutamente dargli».
«Ricordo anche un altro episodio in
cui, poco prima della fine della guerra, un tedesco, vedendomi debole, mi diede
venti centesimi per potermi comprare della zuppa di patate – continua a raccontare, rispondendo
alle domande dei ragazzi – Rimasi
stupito da quell’improvviso ed inaspettato gesto di gentilezza. Lì fu il
momento in cui capii che lui, con quella divisa pulita, lucida, e quel mitra
pronto a sparare, aveva perso. Si era trovato dalla parte sbagliata della
storia. Io, debole, disarmato, affamato e vestito di stracci sporchi, avevo
vinto».