DI ANGELO PALMIERI, SOCIOLOGO
Oggi troppo spesso si ripete che l’attuale società sempre più pericolosamente sproni le persone verso modelli di comportamento individuale che svuotano l’esistenza dei cosiddetti valori essenziali. Ne è derivata una nuova forma di individualismo.
Alcuni studiosi, penso ad esempio a Nicole Aubert, parlano di individuo “iper-moderno”, mentre altri, come Gilles Lipovetsky, vedono nella società contemporanea il realizzarsi di una seconda rivoluzione individualista, contraddistinta dalla privatizzazione della vita e dal culto della psicologia.
Ne discende un diffuso malessere psicologico che serpeggia sempre più in forme pervasive e in maniera stratificata. La casistica evidenzia un aumento del consumo di antidepressivi e antipsicotici oltre ad un incremento nella vendita di integratori, come la melatonina, atto a contrastare l’insonnia da stress.
Non meno preoccupante il ricorso a forme di medicazione autogestita, favorendo così comportamenti di consumo e dipendenza altamente nocivi, soprattutto con riferimento al target giovanile.
Assistiamo ad un incremento sensibile del numero di accessi in pronto soccorso con diagnosi principale di natura psichiatrica e si allungano le liste d’attesa dei centri di salute mentale: senso di smarrimento, ansia, attacchi di panico, tutti allarmismi tesi a significare un malessere che necessita non già una stanca riproposizione di comportamenti e soluzioni soliti ad essere messi in campo, quanto soprattutto del coraggio di affrontare la complessità sociale dell’attuale tempo inedito e rovesciato – la katastrophé “capovolgimento, rovesciamento” degli antichi Greci, ma una immagine più appropriata ci porta all’aratro che rivolta la terra, ovvero penetra nella superficie del campo, incide la compattezza del terreno, porta alla luce ciò che sta sotto – sperimentando rischi e opportunità.
Urge levare l’ancora, salpando da un approccio diverso capace di leggere il tema del disagio da una prospettiva sociale, centrata sulla comunità.
Più volte i vari esperti della materia sanitaria hanno ben illustrato le diverse insufficienze strutturali, a cominciare dalla riduzione dei servizi e del personale, a fronte di più prestazioni erogate dal territorio. A tal riguardo vale la pena ricordare che la spesa per la salute mentale è ferma al 3,5% del Fondo Sanitario Nazionale rispetto ad una previsione di spesa del 5%.
Ma al di là dei dati e delle carenze strutturali e motivazionali dell’intero orientamento del sistema di tutela della salute mentale, che come ben divulgato da ampia letteratura, presenta elementi ormai obsoleti e non più coerenti rispetto alle reali necessità delle società moderne, occorre evitare il rischio di letture e risposte al disagio psicologico basate unicamente sul principio esplicativo di matrice psicologica, medica e di organizzazione dei servizi. Va pertanto contrastata la tendenza alla medicalizzazione della vita e la riduzione della medicina dentro una visione tecnocratica della salute.
Si avverte l’urgenza pedagogica di abitare spazi di relazione non differita e virtuale. Non possiamo più rinunciare a forme di socialità consistenti, di scambio profondo e affettivo, di con-divisione e pertanto di cura.
Il pensiero più cogente porta ai nostri giovani e giovanissimi e al beneficio di esperienze relazionali in cui poter socializzare solitudini, fatiche e paure generati dalla crisi attuale e di poter altresì sperimentare risposte inedite e ignorate da un mondo adulto infiacchito che tira a campare. Allora la sfida è quella di rigenerare la solidarietà partendo dal riconoscimento della fragilità di tutti e di ciascuno e sulla possibilità di una sua valorizzazione dentro la costruzione di relazioni sociali dense simbolicamente.
Siamo indissolubilmente legati gli uni agli altri. Questo inestricabile legame nasconde, per un forte potenziale generativo. Quel che serve è liberarlo, dargli forma.
Il prendersi cura, come sostiene Mauro Magatti, è un modo diverso di pensare il nostro rapporto con la realtà. Esprime un compromettersi con l’altro, la capacità di uno slancio prometeico verso ciò che mi è ignoto, ma non estraneo.
Non va mai dimenticato che essere al mondo nell’ottica della cura significa co-esistere, con-vivere, co-municare, com-petere, con-dividere, co-struire il proprio essere in relazione con altri e fare di altri un valore: insomma, dobbiamo riscoprire le parole con il cum-, perché tutti andiamo nella stessa direzione.
L’esperienza della pandemia del 2019 conferma come la salute mentale sia da intendersi non tanto in senso individuale quanto come una condizione che interessa l’intera comunità.
Ecco, dunque, la sfida nella sfida: moltiplicare le ragioni dello stare insieme, dell’abitare luoghi comuni, per opporsi al propagarsi delle derive distruttive dell’autoreferenzialità. Il noi sembra ormai sottomesso al potere dell’io inficiando il tessuto stesso della democrazia che rischia di scivolare precipitosamente sotto la “tirannia degli individui”, come scrive Tzvetan Todorov.
Abbiamo l’urgenza sociale e pedagogica di adoperarci per contrastare un io che diviene attore di dissoluzione, non di legami, di esclusione, non di inclusione di contro alla realizzazione di una comunità larga (Aldo Bonomi) capace di trasformare il disagio dell’altro in un orizzonte di benessere per tutti!
Occorre la sapienza pratica e capillare, che aiuti a individuare piste concretamente percorribili. Di fronte ai problemi, quali il disagio specie quello giovanile, non ci sono soluzioni facili ma occorre senza alcun dubbio una prospettiva sociale di partecipazione anche dal basso che veda il concorso di tutti.
Un tempo, che al contrario della ripetizione e dell’inerzia, sappia rispondere alle azioni educative e sociali con gesti inediti e cambiamenti radicali, superando gli interessi parziali e cercando di promuovere un bene che sia per tutti.