DI MARINO PAGANO* E ANGELO PALMIERI**
La complessità arde nelle viscere del mondo contemporaneo e sconquassa le nostre vite umane, troppo umane. Essa condiziona il nostro cammino di vita che ha bisogno di forme di solidarietà e si riscopre, invece, sempre più privo di ancoraggi simbolici certi e ripari protettivi capaci di marcare un orientamento di senso intellegibile.
Tutto è avvertito come “energia senza forma”, in un processo di continua ridefinizione della forma di vita collettiva, lo stato di “discrasia”, che coinvolge vari sistemi e sottosistemi, consegue alla disorganizzazione sociale generata da un’accelerazione dei cambiamenti. Un malessere della società attuale che vede la compresenza di fattori confliggenti e paradossali.
Le varianti narrative oltremodo confuse di questi tempi sembrano avviluppate da una banalizzazione e da una strumentalizzazione preconcetta e si rivelano mistificatorie più che informate a ragioni biologiche e sociali.
Viviamo un’esperienza traumatica, soprattutto sociale, di comunità smarrite e già in narcolessia da tempo, sin da quando siamo stati attraversati da altri due shock globali, l’attacco alle Torri Gemelle e la crisi del 2008.
Le nostre comunità sono alla resa dei conti con Sorella Morte, la grande rimossa del delirio tecnocratico e di crescita illimitata, divenute esplicitazione del Sommo Padre della Globalizzazione.
Il tempo della modernità liquida, affermatasi nel corso degli anni Novanta e agli inizi del Duemila, non può non dirsi persino concluso.
E sul senso della precarietà possiamo, senza alcuna esitazione ed alcuna mistificazione, magari recitando un mea culpa collettivo, riconoscere la condizione inestirpabile di ogni dimensione umana e sociale.
Non si potrà ripartire senza osare risposte di senso, specialmente collettive, alla precarietà come dimensione costitutiva, ontologica.
Le fragilità, più volte ammantate da deliri di efficientismo, si mostrano senza travestimenti: sono compagne irrevocabili della vita sociale.
Si avverte, dunque, l’urgenza di una nuova direzione, senza cedere alle sirene incantatrici di una routinaria fiducia ormai evanescente. Siamo obbligati ad una revisione delle nostre ermeneutiche categorie interpretative, tutte da reinventare.
Tutti orfani e spogli di un disincanto affettivo, privi di un “nuovo simbolico” in grado di dare nome e significato a “quell’ethos di trascendimento” (Chiara Giaccardi, Mauro Magatti) oggi necessario per convergere verso un ordine sociale rigenerato.
Patiamo, forse in uno stato ancora poco cosciente, il bisogno di una prospettiva verso un corpo sociale più inclusivo; le numerose pratiche sociali di mutuo aiuto presenti nel nostro Paese, ci indicano, ad esempio, una preziosa traccia di lavoro senza cedere alla tentazione di imbrigliarle o liquidarle in forme dell’agire da istituzionalizzare. Urge procedere nell’affermazione di valori ormai post materialistici, nel perseguimento di rapporti dalla dimensione faccia a faccia, di espressività e scambio quotidiano, da cui far derivare l’utilità e il sostegno materiale.
C’è bisogno di immaginare una nuova forma di vita sociale, partendo da una domanda di visione e da percorsi inediti per realizzarla. Occorre una nuova forma di vita comunitaria che includa la dimensione del rischio, più volte insipientemente elusa, che ha determinato notevoli costi umani, sociali ed economici.
Non possiamo più permetterci il lusso di venir meno ai veri obiettivi trasformativi capaci di portare a valore il tema dell’ambiente, della sanità, dei beni non solo individuali ma di comunità.
Come e dove investire per rinnovare un modello economico? Da dove cominciare? Le lunghe code alle mense della Caritas rappresentano una drammatica iconografia degli effetti devastanti della crisi economica, radicalizzando le contraddizioni di fondo di un paradigma economico sostenuto dalla falsa idea che il mercato lasciato a sé stesso favorisce la crescita e che l’individuo si realizza attraverso il consumo.
Dunque, necessita una riflessione nuova sul senso del bene comune che possa finalmente determinare riflessi e prospettive nuovi nelle relazioni con gli altri e sull’economia reale, innescando una rigenerazione economica e sociale.
Sarà altresì determinante cogliere con maggior estro la questione della solidarietà, non come sovrastruttura ideologica, per usare un’espressione efficace del sociologo Mauro Magatti, ma quale fondamento della stessa vita sociale che aiuta a trasformare la lontananza in prossimità, la mancanza in presenza; a ritrovarsi in compagnia e comunità, perché pronti ad accogliere ragioni di senso, di futuro e di speranza; a ritrovare una solidarietà in carne ed ossa capace di “provocare” tutti, come persone e comunità, tutta pregna di un potenziale ancora inespresso. Una rielaborazione culturale che sappia coniugare sapientemente razionalità e senso dell’agire, individualità e collettività, benessere delle generazioni presenti e future.
Si è rivelato, nei fatti, profetico Marcello Veneziani, in quell’ingiustamente poco ricordato saggio Laterza del 1997, poi rivisto nel 2006: “Comunitari o liberal: la prossima alternativa?”.
Inoltre, precipuo anche il ruolo di istituzioni coese e ben funzionanti che fungano da base protettiva e in grado di assicurare quel minimo senso di appartenenza, contrariamente al persistere di trame litigiose, precarie e logorate dall’unica preoccupazione di dover durare.
Si percepisce, al di là di questa bizzarra pienezza del vuoto, un impulso alla speranza, che va tuttavia coltivata ed esige visione, costruzione, coraggio e militanza, pur nella consapevolezza di non conoscere ancora con precisione la meta.
*giornalista, saggista ** sociologo, educatore di comunità